Paolo Benvegnù e suoi “fragilissimi film”: l’intervista

Finito un percorso magnifico (gli Scisma), c’è voluto molto tempo perché Paolo Benvegnù tornasse ad esporsi in prima persona. È tornato con un disco incantevole, “Piccoli fragilissimi film”, che ci consegna istantanee di un uomo che ha imparato a stare in equilibrio precario, e che non vuole rinunciare alla sua debolezza.
Un disco sofferto, un autore che spiega la sua arte senza falsi pudori o ritrosie, una vera e propria catarsi in musica: questi sono i suoi meravigliosi piccoli fragilissimi film.


“Piccoli fragilissimi film” è un’autobiografia piuttosto sofferta. Io continuo a leggere tue interviste ovunque. Quanto ti pesa raccontare e spiegare a tutti come sono nate le canzoni, e i momenti della tua vita in cui sono nate?

Si intrecciano sentimenti differenti ogni volta.
Può sembrare paradossale, ma da un lato questo spiegare mi serve ancora di più per capire quello che è successo (maglio dovrei dire: quello che mi è successo) e per pulire eventuali dubbi, dall’altro questa cosa mi invita a tornare a ripensare a momenti dolcemente violenti, in cui ho rimesso in gioco per l’ennesima volta tutta la mia vita. E sono stati per me momenti di delirio assoluto, che però mi hanno fatto capire davvero il senso della precarietà di cui sono intriso.
E’ una specie di dipendenza da forze maggiori, che non riesco ad evitare.
Penso di essere un terribile distruttore, e vorrei invece essere un ottimo apprendista in costruzioni. E non mi trovo quasi mai in equilibrio.
Questo una volta mi affaticava, ora penso di vivere per sentire il senso di vertigine che comporta.

Una data: 10 maggio 2003. Cosa ricordi di quella sera, che sensazioni ti ha lasciato?

L’ultimo Valzer degli Scisma mi ha lasciato una sensazione di felicità e di gioia che ho provato davvero poche volte.
Abbiamo avuto la forza di chiudere un percorso in positivo.
Avevamo spezzato un destino e l’abbiamo ricongiunto nella felicità.
Ma ciò che mi è rimasto addosso di più è decisamente lo stupore di sentire veramente l’amore e la passione che abbiamo profuso ritornare con gli interessi (e quanti, e grazie ancora!).
Ho in testa e sulla pelle l’applauso iniziale che mi spinge ancora adesso a cercare di meritarmelo, il senso di strana alchimia che c’era anche quella sera tra di noi, l’ultimo brano suonato tutti insieme che sarà per la tutta la mia vita un manifesto.

In che modo il tuo trasferimento a Firenze, e il ripartire da capo con nuove persone, ha cambiato la tua musica?

Sono arrivato a Firenze e come persona ero davvero gravemente danneggiato.
Una specie di relitto sentimentale pieno di ferite.
Suonare con Marco Parente mi dato la possibilità di tornare subito a contribuire alla costruzione di un disco. E Marco mi ha insegnato un senso della determinazione e della concentrazione che io non conoscevo.
Lì ho incontrato Andrea Franchi e Gionni Dall’orto che hanno nell’estemporaneità una dote meravigliosa: la leggerezza.
Perciò è stato strano per me incominciare a suonare seguendo l’estro del momento, improvvisando costantemente, suonare cercandosi.
Poi, nonostante io fossi comunque ancora danneggiato, Alessandro Forniti (Mr. Stoutmusic.) mi ha chiesto di produrre gli Otto’p’Notri, ensamble fiorentino.
Non avevo mai fatto davvero la produzione di un disco, ma mi ci sono buttato a capofitto e ho compreso che i problemi dei gruppi stanno essenzialmente nel fatto che…sono gruppi, appunto di persone.
Accezione ovvia, ma che mi ha fatto pensare a come sia assolutamente importante valutare le diversità come una forza piuttosto che come un rischio, un buco.
Ho incontrato in quella situazione Massimo Fantoni e Fabrizio Orrigo e nel tempo è stato naturale per noi sviluppare alcune cose insieme.
Ci sentiamo come dei liceali in gita a Forte dei Marmi..incredibile, per dei non ventenni.
La musica è perciò, come sempre, un effetto dello stare bene tra di noi e anche se Piccoli Fragilissimi Film è un disco sofferto, mi sembra di poter dire che la sofferenza è derivante da un momento precedente, perché nella lavorazione del disco non ci sono mai stati problemi di pesantezza.
Penso che il senso della mia scrittura sia cambiato: una volta scrivevo di ciò che percepivo, ora scrivo di quello che vivo.


So che hai avuto un’esperienza teatrale. Mi racconti com’è andata? Sembra che tu ne sia uscito molto più sicuro e consapevole delle tue capacità vocali…

Negli ultimi 3 anni ho fatto due esperienze teatrali: una è una messa in scena del Pinocchio di Collodi in versione Prosa-musical (complicato da capire, vero?) e l’altra è il Presepe Vivente Cantante di Bollani-Riondino.
Nel Pinocchio (non quello dei Pooh, ovviamente) io, Gionni, Andrea ed altri musicisti facevamo gli attori ed i cantanti di Brani scritti da noi seguendo le parole del Collodi.
Abbiamo fatto molti spettacoli per bambini e devo dire che è stata un’esperienza meravigliosa.
Non capita spesso, infatti, di avere un pubblico che vive per l’emozione del momento, senza sovrastrutture, che segue la trama in base all’energia con cui la comunichi.
Nel Presepe, invece, mi sono ritrovato con assoluto stupore a rivestire i panni di una statuina del presepe (difficile stare fermi immobili per un’ora e un quarto…) ma soprattutto a dovere solo cantare, in compagnia peraltro di vocalist a mio parere incredibili che vengono oltretutto dal jazz e dalla musica contemporanea.
Passato il primo istante in cui ho cercato di drogare tutta la compagnia per farmi accettare, ho pensato che potesse essere una buona occasione per imparare a credere di poter cantare.
Non sono ancora riuscito a convincermi, ma ogni tanto i buoni maestri David Riondino e Stefano Bollani mi incoraggiano e allora forse mi è cresciuta un poco di autostima…….

Veniamo al disco: le parole che scrivi arrivano in maniera molto diretta, come se avessi cercato di non nasconderle più. E’ un’impressione corretta?

Mi sono accorto di avere scritto molti pezzi per mondare i miei errori, le mie frustrazioni.
Per fare questo non ci devono essere sovrastrutture e io ho provato ad andare fino in fondo.
L’impressione è corretta e sinceramente mi sento di ringraziarti.
Però mia nipote, fan di Robbie Williams, mi ha detto che i miei pezzi, secondo lei, vanno tradotti…mi sa che sono ancora a metà dell’opera!


Nelle nuove canzoni torna spesso il tema dell’accettare la bellezza delle piccole cose, un tema che avevi già tentato di affrontare all’epoca di “Armstrong”. Come mai sentivi la necessità di parlarne di nuovo? Senti di essere andato più a fondo ora rispetto al passato?

Più divento anziano e più capisco la bellezza.
Forse perché quando si è giovani si è talmente belli da non accettarsi.
Mi capita di essere felice quando vedo una ragazza scrivere degli appunti, oppure quando sento in qualche bar gli anziani parlare dei loro luoghi comuni (ti assicuro che alcune volte vado nei bar apposta per sentire questi discorsi….).
Le gioie minime mi fanno stare bene, mi danno equilibrio, sicurezza….Forse perché un tempo non ero capace di coglierle.
Rispetto ai tempi di Armstrong, ripeto, se non ti disturba, la tesi di prima.
Prima percepivo (o meglio, cercavo di percepire) ora vivo.


“Hai attraversato l’inferno”, canti in “Suggestionabili”. Quanto è stato difficile scavare in te per comporre queste canzoni? Riesci a non sentirti totalmente esposto quando le canti?

Suggestionabili è stato l’unico brano che non siamo riusciti davvero a sviluppare fino in fondo sul disco.
E’ stata colpa mia, perchè non ero ancora preparato a pensarmi come una persona sempre in equilibrio precario (e pensare che il pezzo parla proprio di questo, ne è il manifesto).
Sugli altri brani non ho dovuto scavare.
Ero talmente a pezzi che o scrivevo o mi ubriacavo.
E mi sento completamente esposto quando li suoniamo dal vivo, non riesco ad astrarmi da quella realtà, o meglio, suonare quei brani mi allontana dai pericoli.

Una curiosità sui tuoi concerti: gli sketch tra un brano e l’altro sono studiati prima, o nascono sul momento? E’ piuttosto straniante il contrasto tra quei momenti e l’atmosfera delle canzoni…

Gli sketch ci vengono naturali e normalmente non sono studiati.
Ogni sera, per spiazzarci, pensiamo ad un argomento e lo mettiamo in scena, improvvisando..
Siamo stati in treno, in aeroporto, nel bosco, nell’antica Grecia, a Firenze nel periodo di Dante…addirittura piccole creaturine del mare…però questo capita anche se ci incontriamo anche solo per parlare o per fare le prove…dicevo prima: dei liceali, dei goliardi…
Ultimamente, però, stiamo cercando di andare un poco oltre il calambour:è divertente, è spiazzante ma diventa anche una forzatura, alle volte.
Preferiamo pensare essenzialmente a suonare.
Comunque il senso era fare uno spettacolo in bianco e nero: tragedia ed idiozia…non forse intriso anche di queste cose è l’uomo?


Ultimamente tutti ti paragonano ai cantautori degli anni ’60. E’ stata una “scena” che hai amato e che hai riscoperto ora, oppure è qualcosa che è venuto fuori inconsciamente nelle tue canzoni?

Penso che cercando davvero di denudarmi sia andato verso quello che sentivo durante l’infanzia e purtroppo non sono nato nel 1981.
Di conseguenza, questo “fare le canzoni per fare le canzoni” ha un approccio che può ricordare i cantautori classici.
Lungi però da me pensare di potermi minimamente collocare a fianco di incredibili persone come Endrigo, Tenco, Bindi, Gaber (la lista è lunghissima, ma non comprende Raf).
Io mi sento un universitario al primo anno, leggermente soprappeso e con il fiato un po’ pesante…forse sono fuori corso.


Questo significa che hai già perfettamente chiaro quello che sarà, e che stai per scrivere? Concludiamo così: si parla di una “trilogia del tessuto”.

Significa solamente che ho capito il senso ed il valore delle parole:
Costruzione
Consolidamento
Dismissione
Ma se devo essere sincero, non so minimamente che cosa potrà succedere.
O forse sì.
Non vorrei mai smettere di innamorarmi.