THE GROWLERS, “City Club” (Cult Records, 2016)

13912383_10153722367170079_8065898785883828686_nLa notizia che i Growlers avrebbero prodotto il loro quinto disco insieme a Julian Casablancas, uscita qualche mese fa, ha spiazzato tutti. Molti fra di voi hanno aspettato l’uscita dell’album con apprensione, preoccupati per le sorti musicali di una delle band più divertenti degli ultimi anni. Se siete tra questi, e speravate che i Growlers tutto sommato avrebbero potuto a tirare fuori un buon disco nonostante la presenza di Casablancas, allora sappiate che avete torto: questo “City Club” è contaminato dal frontman degli Strokes in maniera massiccia, e purtroppo irrimediabile.

Il “beach goth” – il termine coniato dalla stessa band Californiana per descrivere il loro sound – è totalmente sparito: niente più psych, niente più surf, niente più garage, niente più melodie sghembe, niente più emozioni schizofreniche. Dei Growlers che conoscevamo e apprezzavamo è scomparsa quasi ogni traccia. La nostra non è un’esagerazione, ma l’amara constatazione che l’attitudine esploratrice che da sempre contraddistingue la band – che in “Chinese Fountain” aveva portato a risultati davvero buoni – in questo caso si è dimostrata parecchio deleteria.

Erano bastati i due primi estratti ad insospettirci: la title-track e “I’ll Be Around” avevano messo le cose in chiaro in pochi minuti, mettendo bene in mostra il nuovo sound dei californiani. Purtroppo però, le due tracce non erano che la proverbiale punta dell’iceberg: tutto “City Club” propone una miscela davvero poco ispirata – a tratti fiacca, a tratti banale – di funky, synth-pop e indie-rock imitativo degli Strokes. Il tocco di Casablancas si sente eccome: ci sono le chitarrine che forse potevano definirsi fresche una quindicina di anni fa, ci sono le melodie indie da ballare, ci sono gli inframezzi di voce effettata, ci sono i synth tanto invadenti quanto vuoti e senz’anima. Gli episodi più palesi sono “Neverending Line” e “Too Many Times”, ma in realtà non c’è un brano che non risenta della sua produzione, che definire “invasiva” è dire poco.

Nella cronaca di questo brutto tonfo, possiamo salvare qualcosa? Sì, per fortuna. “Vacant Lot” e “Rubber & Bone”, nonostante conservino la struttura basso-synth-batteria presente nel resto delle altre canzoni, celano nel profondo qualcosa di oscuro e sbilenco che ricorda i Growlers che abbiamo amato fino a poco tempo fa. Sotto sotto, un cuore batte ancora.

55/100

(Enrico Stradi)