Black Forest / Black Sea, Locanda Atlantide (Roma) (25 marzo 2004)

Esiste una sotterranea scena, in quel di Philadelphia, che suona folk: un folk figlio delle contaminazioni, capace di spaziare dal rumorismo più astratto alla liquidità ipnotica del flusso di coscienza psichedelico, dall’incontro con la tradizione popolare alla musica colta. Di quella scena si fanno portabandiera, in un breve tour nell’italica terra, i Black Forest/Black Sea, ovvero Miriam Goldberg e Jeffrey Alexander.

Arrivano forti del loro ultimo lavoro, “Forcefields and Constellations” e delle varie collaborazioni dell’ultimo periodo, che li hanno visti partecipare al mastodontico omaggio dedicato dall’underground statunitense al genio di Tom Rapp, mente visionaria dei Pearls Before Swine – che possono essere considerati, insieme ai Dirty Three, i punti d’ispirazione più netti del due -.

Quello che propongono all’esiguo (vergognosamente esiguo) pubblico della Locanda Atlantide è un concerto memorabile per intensità ed emozioni. Entrambi seduti su una sedia, accompagnati solo da una sorta di mandolino (lui) e dal violoncello (lei), si gettano nella riproposizione di un repertorio che appare completamente trasfigurato rispetto a quanto racchiuso nei loro lavori in studio. Mentre l’avvolgente corposità del violoncello, di cui Miriam sembra conoscere ogni minimo segreto, riempie l’aria, Jeffrey si divide fra dolci arpeggi acustici, improvvisi assoli tra l’orientaleggiante e l’indie-rock e una varietà di rumori invidiabile. In una scaletta che prevede come unico ordine del giorno la totale, libera e sfrenata improvvisazione i due si gettano a corpo morto in inseguimenti spasmodici, stasi improvvise, balbettii sconnessi.

La sussurrante, timida ed elegiaca voce di Miriam si fa largo, splendidamente, quando meno te lo aspetti. La capacità di fondere musica popolare ed avanguardia e al contempo di riuscire a rendere una sensazione di epica minimale – lo so, ossimoro, e lo so, follia, ma qualcuno provi a dire il contrario – è realmente strabiliante. In un brano Miriam abbandona il violoncello e si accompagna con un Omnichord, sorta di Therenim fuso con un videogame per bambini, e l’effetto è quello di una marea lontana, un delicato lasciarsi cullare dalle onde (e se l’essenza fosse proprio qui, in questa unione tra foresta/terra, cultura popolare, e mare/flusso psichedelico, onirismo?).

I due salutano, sorridono, si scambiano sguardi e battute durante le improvvisazioni, si cercano e si completano l’un nell’altro, in una simbiosi che non diventa mai piattezza, mai banalità. Finiscono il concerto e scendono tra il pubblico, con la loro birra in mano: l’aspetto divistico non fa decisamente parte del loro approccio musicale. Vengono applauditi a scena aperta e allora salgono per il bis; sempre sorridendo Miriam afferma che il pezzo che eseguiranno non è mai stato neanche provato, non sanno bene cosa ne verrà fuori, se sarà orribile si scusano in anticipo. E’ un canto ebraico, ed è forse il punto più alto del concerto. Dopo eseguono una breve, splendida, digressione puramente folk (banditi i rumori, banditi i riverberi cosmici) e scendono nuovamente dal palco.

La sensazione è quella di avere davanti una band fondamentale per un nuovo approccio, mentale oltre che strumentale, alla musica. La sorpresa più luccicante di questo 2004. Uno dei concerti più emozionanti a cui si possa avere la fortuna di assistere.