TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI, Il sogno del gorilla bianco (Alternative Produzioni, 2004)

A Davide Toffolo, mente dei Tre allegri ragazzi morti, va riconosciuto il merito di aver costruito intorno alla propria musica la scenografia di un mondo assolutamente originale e riconoscibile, cercando una contaminazione con il fumetto ben prima che arrivassero i Gorillaz – e la scelta grafica tra l’altro è molto simile alle intuizioni pseudo-anime del supergruppo capitanato da Damon Albarn -.

Tra scheletri che sembrano uscire da “Grim Fandango”, bare che possono essere scambiate per tavole da surf, e proprio un gorilla bianco sembra esserci tutto per costruire qualcosa di divertente e di memorabile. E allora cos’è che manca a questo lavoro? La musica. Dispiace essere così diretti, ma veramente non si può fare a meno di notare come l’impianto musicale sia stato totalmente dimenticato a casa.

Se l’idea di base sembra essere dominata da uno sguardo sorridente al pop dei benemeriti anni ’60 a conti fatti questo omaggio appare come qualcosa di assolutamente forzato, addirittura stancante nella sua semplicità. Perché, come bisognerebbe insegnare, la semplicità è la più delicata e sottile delle arti, e dunque la più facile da deturpare. E tutto ciò che resta alla fine dell’ascolto di “Il sogno del gorilla bianco” è una sensazione di pura inutilità.

Prendete come esempio “Country Boy”: coretti in stile doo-woop, 4/4 perfetto, chitarra leggermente distorta, batteria standard, testo che recita “va tutto bene e se respiri forte c’è ancora un po’ d’aria sotto quest’odore di motore” e nel ritornello “But I Am a Country Boy/e una casa non ce l’ho”. Si gioca a fare le Chordettes, ma quello che esce fuori non ha nulla di diverso dalla povertà intellettuale e artistica propinataci negli ultimi anni dai Lunapop. E la cosa più sconcertante e frustrante è che per tutti i tredici brani non c’è neanche un frammento che faccia ben sperare per il futuro. Gli intermezzi per sola voce e chitarra di Toffolo sono addirittura imbarazzanti, incapaci di spezzare un ritmo che semplicemente non esiste, sbiaditi epigoni di modelli che appare quasi criminoso citare.

Raramente capita di trovarsi di fronte a qualcosa di così piatto, banale, prevedibile, sciatto. Tutto già scritto, già suonato. Se l’intenzione era quella di distruggere la musica commerciale scrivendo pura musica commerciale, i ragazzi farebbero bene a studiarsi i saggi sul post-moderno e a (ri)ascoltare i lavori di Frank Zappa. Se invece si vuol solo fare del surrealismo, si ha l’impressione che a nostra insaputa sia stato pubblicato un sedicente bignami sull’argomento, visto il semplicismo con il quale la band tratta questa branca dell’arte. Insomma una sola appare la certezza alla fine dell’ascolto, quella di trovarsi di fronte ad un nulla lungo quaranta minuti.

Quasi tre quarti d’ora di vita sprecati. In questi tre allegri ragazzi morti l’unica cosa a morire è la musica: per il bene nostro e vostro, ragazzi, cambiate mestiere!

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