ANIMAL COLLECTIVE, Here Comes The Indian (Paw Tracks, 2003)

Martellamenti di sottofondo, rumori ovattati, riverberi, voci impazzite ed improvvisi rigurgiti di chitarra. Musica frastagliata, ondivaga, improvvisa, deflagrante e spezzata. Così si presenta questo “Here Comes the Indian”, ultima fatica degli Animal Collective di Panda Bear e soci; musica folle – ma con degli pseudonimi del genere come ci si poteva aspettare qualcosa di diverso? -, che trova nell’incipit “Native Bell” un terreno fertile su cui dipanarsi e mostrarsi nella sua frastornante complessità.

Spiroidale e catacombale l’incedere di “Hey Light”, che si sviluppa con una batteria incessante, una serie di schitarrate acide e voci ubriache, ripetitive e vagamente annoiate, mentre si fanno strada i soliti “versi di animali” che riempiono di fatto l’album, come ectoplasmi quasi invisibili eppure inafferrabili. La musica si spegne lasciando spazio ad un irregolare battito di mani, snervante, altrettanto inafferrabile. Ecco, forse è inafferrabile la parola chiave per questo lavoro: schegge impazzite che non possono (o non devono?) trovare una collocazione definita, anarchie strutturali tese esclusivamente allo stravolgimento della forma canzone, che diviene stirata, impalpabile, praticamente inesistente.

Avanguardia psichedelica, se vogliamo trovargli una definizione a tutti i costi: folle e drogata ma, che sia chiaro, pensata e diretta con una lucidità di non semplice comprensione. Come spiegarsi altrimenti la melodia sotterranea – e sotterrata! – di “Infant Dressing Table”? Otto minuti e passa nel quale rumori, riverberi e versi sono sfruttati come coperta di una semplice e struggente melodia folk, che per prendere il sopravvento è “costretta” a diventare a sua volta verso reiterato in un crescendo rumoristico di raro spessore emotivo. A tratti sembra quasi che l’Incredible String Band sia entrata in collisione con l’ipotesi industriale di fine anni ’70, in un mondo in cui la radio trasmette rimbombi di altri pianeti, suoni siderali ed onde cosmiche (l’angosciante universo che lancia il suo grido di paura in “Panic”, ma anche e soprattutto gli schizzi di rumore che pervadono l’intera opera).

Trovata la coordinata giusta per aggrapparsi a questa esperienza musicale è arduo non lasciarsi travolgere e inglobare dall’intensità delle idee di questo collettivo animale: e si arriva addirittura a farsi cullare, per quanto possibile, dal frinire di grilli – o è feedback? – che apre i dodici minuti di “Two Sails on a Sound”, in cui convivono aritmici battiti di cassa, riverberi, un pianoforte spettrale, voci dallo spazio, una linea vocale dimessa accompagnata da versi figli dei barriti dell'”Effervescing Elephant” di barrettiana memoria. Una delle sfide sonore più dure degli ultimi anni, evitando qualsiasi concessione all’immediatezza.

Bisogna avere una predisposizione d’animo e una pazienza non indifferente per apprezzare in pieno questo piccolo, geniale capolavoro, ma vi assicuro che ne vale la pena; l’importante è non farsi spaventare da questo oceano di rumori senza apparente logica né spiraglio. Perché c’è anche la possibilità di divertirsi, eccome, lasciandosi trascinare in una baraonda infernale dalla stupefacente “Slippi” in cui la band si riappropria in toto delle proprie matrici tribali – dopotutto l’intero album è una ricerca del proprio passato tribale, come evoca chiaramente il titolo – prima di abbandonare il lettore cd coerentemente con “Too Soon”, specchio fin troppo inequivocabile dell’indole musicale della band. Freak del nuovo millennio, questa sia la vostra bibbia!

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