JULIE’S HAIRCUT, Adult Situations (Superlove / Homesleep / Sony, 2003)

Un ragazzo e una ragazza. L’uno di fianco all’altro. Hanno lo sguardo perso oltre l’obiettivo. Pensano a quello che hanno lasciato indietro? A quello che li aspetta d’ora in poi?

Non è dato sapere (la vérité réside dans le songes, scrive la band nel libretto del cd), ma un titolo come “Adult situations” e il tema ricorrente del passaggio, della crescita (assolutamente esplicito soprattutto in “Academy awards”, uno dei momenti più pop della raccolta) porta a forzare le interpretazioni.

I Julie’s sono cambiati, e molto; è una cosa che si avverte in ogni singolo momento del disco. Sono alle spalle il divertimento rock di “Fever in the funk house” e anche le ballate di “Stars never looked so bright”; qui è tutto più variegato, ma anche più ragionato e meno istintivo, e questo è senz’altro il difetto di “Adult situations”: la mancanza di quella visceralità a cui il gruppo ci aveva abituato. Con gli ascolti, però, tutto questo non appare così negativo; non è un male se ora i Julie’s trovano molto più stimolante giocare con un’estrema varietà di suoni (si passa da “Electric 80”, dove Laura gioca alla piccola Kim Gordon, ai suoni lounge della perfetta “Marmalade”, dalla psichedelia neo-beatlesiana di “The last boy living in Zombietown” ai numerosi intermezzi strumentali), o abbandonarsi in lunghe code psichedeliche che fanno pensare a degli Spaceman 3 meno nervosi e più sussurrati, ipnotici: sono proprio questi ultimi i brani più riusciti, e più rivelatori di quello che i Julie’s Haircut sono diventati, oggi.

Che qualcuno possa storcere il naso davanti a tutto questo, beh, è legittimo; “Adult situations” è un disco che richiede molta più attenzione, e molto più tempo, di quanto non facessero i suoi predecessori. È meno divertente, forse, ma è anche più stimolante perdersi nel seducente avvolgersi della chitarra nel finale di “The big addiction” e nei sussurri di “Private hell”, per non tacere dell’incontro tra percussioni, archi e un organo molto doorsiano in “Fear don’t live here anymore”.

Si cresce, insomma. Come musicisti e come persone. Sta a chi ascolta decidere se accettarlo oppure no.

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