PAVEMENT, Crooked Rain, Crooked Rain (Matador, 1994)

C’è una piccola magia che sta giusto nei primi secondi di “Crooked Rain, Crooked Rain”. Mentre le chitarre indugiano in rumori che sembrano non avere alcuna direzione, ascoltando con attenzione si riesce a sentire la voce lontana di Stephen Malkmus che rivolta a Spiral Stairs dice “Watch that Scott”. Da quel momento ecco sopraggiungere gli stupendi accordi di chitarra e la ritmica serrata, poi il cantato di Malkmus e un’esplosione melodica che mette letteralmente i brividi. Si intitola “Silence Kit” e riesce quasi difficile credere come con tanta semplicità si possa arrivare ad una canzone tanto intensa e brillante.

Eppure se questo non bastasse, ecco arrivare “Elevate Me Later”, chitarre in spolvero e le stesse sensazioni di vertigine che affiorano dalla musica, e subito dopo “Stop Breathin”, che inizia lenta e schiva per sfociare in un bellissimo crescendo. Già solo i primi tre brani fanno intuire come anche il secondo capitolo della discografia dei Pavement sia un piccolo gioiello, meno caotico e tortuoso rispetto a “Slanted and Enchanted” eppure altrettanto grande. Rinsaldata la formazione grazia agli ingressi di Mark Ibold, Bob Nostachovich e Steve West, e allontanata la follia Gary Young, i Pavement costruiscono “Crooked Rain, Crooked Rain” sulla forza delle canzoni.

Il suono è più limpido e lineare, ma quello che è rimasto intatto è l’entusiasmo che comunicano i brani. Il bassista Mark Ibold dichiarò tempo dopo che in quel momento qualunque cosa facessero gli riusciva bene. E’ esattamente la sensazione che trasmettono queste tracce, come se l’entusiasmo dei musicisti che vi suonano riuscisse a trasformare qualunque loro tentativo in grande musica. Così anche se ha un gusto meno aspro rispetto all’esordio, il disco è costellato di autentiche perle pop come la divertente “Cut Your Hair”, allora un singolo di discreto successo, o “Gold Soundz”, un incantesimo in jingle jangle a ricordare Byrds e Big Star, o ancora l’impeto di
“Unfair”.

L’orizzonte dei Pavement sembra spostarsi verso la musica dei R.E.M. di inizio carriera. Prendete come esempio quel piccolo capolavoro intitolato “Range Life”, una ballata che sa di America rurale e viaggi in van. Una melodia appena velata di malinconia e suoni ariosi in una grande canzone che richiama pagine indimenticabili del gruppo di Athens come “(Don’t Go Back) to Rockville” o “Shaking Trough”. E’ il brano in cui i Pavement si divertono a prendere in giro la musica sovrapprodotta e la seriosità di Stone Temple Pilots e Smashing Pumpkins.

Del resto loro stanno da un altra parte, traboccanti come sempre di ironia e creatività. Ecco allora apparire le tessiture fragili e notturne di “Newark Wilder” e “Heaven Is A Truck” oppure spuntare la consueta vena di follia: lo strumentale “5-4= unit” che sfiora certe pagine jazz di Tom Waits rileggendole dal solito punto di vista sghembo, mentre
“Hit the Plane Down” raccoglie i momenti più rumorosi del Beck di “Mellow Gold”. E nel finale arriva “Fillmore Jive” che si distende per più di sei minuti tra cambi di ritmo e armonie eccellenti, intonando “Goodnight to the rock’n’roll era”.

Dopo il loro esordio, i Pavement scrivono un altro capolavoro.

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