CODS, Sperochettùstia (Mexicat Records, 2003)

La prima cosa per cui si fa notare il nuovo lavoro dei Cods è il piccolo gatto col sombrero che sta sul retro di copertina, il simbolo della neonata Mexican Records, etichetta fondata da Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo (e da chi se no?).

Poi arriva la musica. “Sperochettùstia” insegue una nuova forma di canzone, prendendo da un lato dai cantautori più ispirati, su tutti De Andrè, dall’altro da suoni più moderni. I Cods sembrano proseguire il discorso dei primi La Crus, punto d’incontro tra chitarre acustiche e disturbi rumoristi, campionamenti, qualche intervento dei fiati che rimanda un po‘ alla lezione di Captain Beefheart. In più il gruppo mostra un’inclinazione verso la forma libera e la recitazione dei testi cara ai Massimo Volume.

Per questo, pur non avendo la forza delle liriche di Emidio Clementi, le parole hanno un ruolo fondamentale nel disco. Sembrano più spesso racconti vaghi e intricati, che trasmettono una strana e forte sensazione d’inquietudine. Si prenda lo scintillante brano che intitola l’intero album, in cui l’atmosfera allucinata, rafforzata dall’intervento di un clarinetto, ricorda una pagina del “Cuore di Tenebra” di Conrad. La stessa aria si respira in “Pugile” e “Tubi”, i due brani più moderni del disco, resi incisivi da un leggero tocco di elettronica.

L’aria di inquietudine viene ribadita da “La canzone di chi parte”, che ha la struttura di una classica canzone folk e recita “Io penso alla morte e le do la mano”. Per il resto ci sono un amaro atto di accusa all’Italia, “Mea Culpa”, e il bozzetto che apre l’album, intitolato neanche a farlo apposta “Gatta”. E poi la bellissima “Agosto, Torino, Pavese” a firma Stefano Giaccone, un racconto nitido sulla sensazione di estraneità trasmessa da una città vuota in estate, che si conclude con le parole “E per le centesima volta mi dico voglio andare via”. Infine due ammalianti intermezzi strumentali e un pugno di canzoni tanto imperfette quanto coraggiose.

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