JEFFERSON AIRPLANE, Surrealistic Pillow (RCA, 1967)

Per cercare di comprendere appieno l’importanza storica e il valore musicale di questo immenso capolavoro del rock psichedelico mi affiderò alla descrizione che uno strafatto Hunter S. Thompson fa di “White Rabbit” nel suo oramai celebre “Paura e disgusto a Las Vegas”.

Il suo avvocato è disteso, con la mente completamente assente, nella vasca da bagno e ha intenzione di suicidarsi: chiede perciò a Thompson di gettare nell’acqua la radio accesa proprio sul crescendo della canzone dei Jefferson Airplane, quando la voce di Grace Slick (la più grande interprete rock insieme alla teutonica Nico) si plasma con la ritmica avvolgente, straniante misto di marcetta e incedere orientaleggiante, fino a raggiungere vette difficilmente immaginabili.

L’avvocato spiega la scelta del brano dichiarando di voler morire con un suono “ascendente”; raramente un aggettivo è stato usato con tanta perizia e lungimiranza. Quando la band capitanata, oltre che dalla Slick, da Paul Kantner, Jorma Kaukonen e Marty Balin esce sul mercato con questo lavoro siamo nel pieno dell’esplosione del Flower Power. La costa californiana è un fiorire di comunità pacifiste, pronte a professare l’amore libero e l’armonia totale con il cosmo, e la musica prodotta risente di questa rinnovata voglia di libertà.

Eppure “Surrealistic Pillow” presenta brani che raramente superano i tre minuti e mezzo – splendida eccezione “Comin’ Back to Me”, con quel delicato arpeggio d’apertura e l’immagine del deserto che ti si staglia chiaramente davanti, luogo dove il tutto diventa nulla, dove la necessità diventa superfluo -, diversamente dalle fughe emotive di un gruppo vicino alla band come i Grateful Dead (Jerry Garcia viene qui indicato come consigliere musicale e spirituale).

La psichedelia dei Jefferson Airplane tende a riempire gli spazi, le canzoni suonano piene come non mai, i giochi di chitarra rintoccano ora melodiosi, ora spensierati, ora malinconici, ma su tutto si svolge una trama riflessiva e pacificante. Dalla voglia di purezza di “Today” all’irruenza scatenante di “Somebody to Love”, dal country-folk di “How do You Feel” al blues di “Plastic Fantastic Lover” che ricorda le ossessioni di un Leadbelly e la lingua sferzante di un Dylan, tutto in quest’album suona perfetto, probabilmente irripetibile. Anche e soprattutto la ripresa di un brano di Skip Spence, mente geniale del movimento psichedelico dell’epoca e sorta di Syd Barrett americano (prima la sua militanza nei Moby Grape, poi i problemi che lo porteranno all’isolamento e alla creazione di un album solista, “Oar”, di assoluto valore).

La “My Best Friend” presente su quest’album è il simbolo di un movimento, di un breve periodo storico dove idealismo e pragmatismo andarono di pari passo. Un mondo che possiamo, a volte, nelle nostre case, con i nostri vinili e i nostri cd, risvegliare per qualche ora.

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