JETHRO TULL, Minstrel In The Gallery (Chrisalis, 1975)

Più apprezzato di “War Child” da molti dei fan dei Jethro, “Minstrel in the Gallery” gli è in realtà inferiore, nonostante la bella copertina derivata da una stampa di Joseph Nash.

Il tessuto strumentale è più povero: le tastiere di Evans, pressoché disoccupato, sono sostituite dall’invadente orchestra di Palmer che, soprattutto nella smorta suite “Baker St. Muse”, accompagna quasi costantemente la chitarra acustica e il canto. Ne risulta, complessivamente, un romanticismo senza molto costrutto, un po’ polveroso e di maniera, dove persino la chitarra di Barre sembra sovente girare a vuoto, nel tantativo di dare sostanza ad arrangiamenti che suonano non molto curati: anche se probabilmente le pecche stanno già nella fase di composizione. Persino la title track, di grande intensità nella prima parte acustica, denuncia una certa stanchezza di fondo proprio quando si fa monumentale grazie ai riff effettistici ma riempitivi e ripetitivi di Barre.

Sebbene i passaggi suggestivi non manchino – e in questo senso la brevissima e conclusiva “Grace” occupa uno dei primi posti – essi sono esili e dovuti quasi unicamente all’elemento vocale, alla voce vibrante di Anderson: manca in sostanza, come abbiamo già anticipato, un adeguato supporto strumentale. Gli archi suonano come un surrogato poco convincente, vagamente ruffiano.

C’è sentore di svogliatezza, di vacanza. Forse non è un caso che Hammond-Hammond si sia ritirato a vita privata proprio dopo l’uscita di “Minstrel…”: la disoccupazione, qui, colpisce persino lui, e non è un buon segno; la sua ritmica potente aveva segnato in modo evidente i tre concept degli anni precedenti.

Uno stile più superficiale – che maturerà pienamente l’anno successivo – si sta facendo strada: senza la coerenza e la personalità (e nemmeno il coraggio) delle precedenti realizzazioni, con l’epoca del progressive – almeno di quello più vitale – rapidamente declinante, i Tull inaugurano un suono per palati, o meglio orecchie, facilmente soddisfabili, un frullato decadente di generi che va dal rock duro, quasi hard per l’appunto, al pop e al melodico.

Come spesso accade, i prodromi di una mutazione (o degenerazione, a seconda del punto di vista) sono accettabili per i denigratori come per i sostenitori.