JETHRO TULL, Thick As A Brick (Chrisalis, 1973)

Pochi dischi, come “Thick as a Brick”, hanno diviso e dividono tutt’ora critica e pubblico. In verità l’inconciliabilità fra roboante esaltazione e accanita denigrazione, che da sempre avvilisce questo album, è dovuta ad opposti e sterili estremismi, arroccati su posizioni unilateralmente fossilizzate. Da parte nostra abbiamo cercato di dimostrare, nelle precedenti recensioni dei Tull, come il percorso musicale del gruppo dalla fine degli anni sessanta ai primi settanta non sia così ‘forzato’ come reputa molta critica. Ora giungiamo proprio a trattare il nocciolo della questione o, sarebbe meglio dire, il ‘casus belli’.

Con Barriemore Barlow alla batteria in sostituzione di Clive Bunker la band affronta con stile pienamente progressivo la sfida di un concept album a tutti gli effetti. Ma si tratta di un mastodonte tanto ambizioso quanto noioso e carente di idee, oppure di un capolavoro perlopiù incompreso? In realtà esiste una terzo grado di giudizio. A chi ritiene il disco un forzato tentativo di assimilazione dello stile progressivo allora in pieno rigoglio rispondiamo che, se Anderson aveva annusato bene l’aria che tirava, lo aveva però fatto da musicista di talento: e infatti “Thick…”, costituito da un unico brano esteso in ambedue le facciate, mostra una struttura assai originale. “Tubular Bells” di Mike Oldfield sarebbe arrivato l’anno seguente. Le opinioni del ‘piccolo Milton’ ci scorrono davanti senza soluzione di continuità – d’un fiato – in quella che non è un’opera divisa in due parti (e per capirlo bene è sufficiente utilizzare il formato CD), né una suite, ma una unica e immensa canzone scandita da ricorrenze tematiche. Da questo equivoco, forse, sorgono le critiche alla monotonìa e ripetitività del disco.

Certo, di zavorra ce n’è, e alcuni passaggi – soprattutto della seconda metà – sono un po’ noiosi e poco ispirati, invecchiati precocemente; ma se si fa riferimento a quanto detto sopra circa la struttura, allora certe ripetitività risulteranno più apparenti che reali, o quanto meno ridimensionate e parzialmente inevitabili. Lo stile è in ogni caso personale, e non di derivazione. L’uso delle tastiere è assai massiccio, ma non va a scapito delle chitarre: l’ ‘elettricista’ Barre offre ancora la spina dorsale ad una musica che rimane prevalentemente chitarristica. Inoltre è assai limitato l’uso degli archi (ridotti in pratica ad un breve intervento nel finale, dove risultano piuttosto efficaci), elemento a cui troppo spesso Anderson ricorrerà in altre prove, e specialmente in “Minstrel in the Gallery”. Impossibile, infine, ignorare alcuni momenti davvero esaltanti, come il canto imperiosamente scandito e incisivo dell’epico finale, anticipato alla fine del lato A con un procedimento che sospettiamo dovuto anche alle esigenze del vinile (e, in seguito, della cassetta), ma che parzialmente lo sciupa.

Non un capolavoro dunque ma, anche in considerazione della sua forma coraggiosa, un album che l’amante del progressive dovrebbe avere. Un album a cui ci si può affezionare.

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