JONI MITCHELL, Blue (Reprise, 1971)

Un colore, solo un colore: nessuna dichiarazione d’intenti, nessun indizio o suggerimento, soltanto quel colore blu intenso della copertina, in cui affondano i lineamenti spigolosi ed indefinitamente esotici della donna Joni. Un colore che misteriosamente ha la qualità e la sostanza della malinconia, la forma dell’anima quando si richiude su se stessa, per contemplarsi.

“Blue” è un disco raccolto, intimo, composto da pagine di diario: continuamente illuminato dalla poesia, ma immerso nella prosa della quotidianità, assomiglia ad una collezione di pensieri ed appunti racchiusi in un taccuino di viaggio; un fertile caos generato da scrittura fitta, disegni, foto incollate. E non potrebbe essere diversamente: Joni non è un tipo da “bella copia”, da giri di parole, tutto quello che ha da dire lo mette giù in modo disarmante, senza vergogna: un amore nuovo, i troppi amori andati a male, la nostalgia di casa, la gravidanza, la lotta contro se stessa e i propri limiti, un amico inghiottito dalla droga… tutto è detto senza reticenze, tutto è detto terra terra, ma la poesia sgorga come un torrente fra le righe. “Eccoti una conchiglia/ Dentro ci sentirai un sospiro/ Una ninna nanna nebbiosa/ Ecco la canzone che ti ho dedicato”, dice Joni nella title-track, e ti scioglie, ti fa quasi dimenticare di aver appena parlato di siringhe, di pistole, di gente che affonda. Qualcuno dice che la canzone è dedicata a James Taylor, e sicuramente parla di lui o di un’altra persona, reale; ma quello che ti arriva travalica l’esperienza personale, è una sensazione di privilegio; quello di poter guardare dentro a uno scrigno di piccoli tesori, con il lucchetto spezzato.

“Blue” è anche un diario di viaggio autentico, perché Joni lo scrisse in buona parte durante un periodo passato in Europa, lontano da quella West Coast che aveva visto nascere e morire le grandi utopie dell’amore, della pace, dei giorni migliori che dovevano venire. Per questo “Blue” è un disco di lontananza, dolorosa ma necessaria, come è necessaria la nostalgia di casa: Joni prende le distanze da se stessa, dalla “crazy scene” californiana, salvo poi struggersi nel ricordo della Costa (“California”), ma anche del suo nativo Canada (“A Case Of You”), di un fiume ghiacciato su cui poter pattinare (“River”).

L’allontanamento, nella musica, è evidente: la chitarra e il pianoforte di Joni rimandano solo di riflesso agli accordi pieni e trionfali della West Coast, alle armonie vigorose degli amici CSN&Y. Joni qui è sola, e si muove in un territorio sconosciuto che la sta portando lentamente verso il connubio col jazz (metamorfosi che sarà compiuta più tardi): esempio di accecante bellezza è la title-track, ma ci sono anche le bizzarrie cromatiche di “My Old Man”. Quando i ricordi si fanno strada, invece, lo fanno in tono minore, affiorano come fantasmi: come l’eterea pedal steel guitar di “California”, o i cori sommessi di “Carey”; nemmeno le chitarre di Stephen Stills e James Taylor, gli amici ospiti, riescono a schiarire più di tanto il colore dominante, che è sempre quel blu profondo.

“Blue” è una splendida, abbacinante, dichiarazione di indipendenza; dentro c’è il coraggio di una donna complessa e un’artista genuina, che rivendica il diritto e il dovere di cantare la propria intimità, di aprirsi attraverso la musica. Per questo “Blue” è un faro, un disco che ha insegnato a generazioni di donne del rock a non essere delle groupie, ma a guardare le proprie vulnerabilità e scoprire la propria forza. Sono in tante a doverle dire grazie.

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