ARMENIAN NAVY BAND (ARTO TUNCBOYACIYAN), New Apricot (UMG, 2002)

Qualcuno si chiederà: quale mare solcherà questa banda della marina armena, dal momento che non esiste alcun mare in quel paese…La risposta viene direttamente dal titolare del progetto, il funambolico Arto Tuncboyaciyan: il mare è quello metaforico dell’amore, del rispetto, della verità e della pazienza, ciò che Arto ed i suoi compagni ambiscono a rappresentare. Provenienti da una terra storicamente contesa dal vicino oriente integralista e vessata per decenni dal decaduto impero sovietico, essi portano alla luce un mondo rimasto per troppo tempo nascosto, anche se a volte evocato dalle migliaia di profughi armeni che hanno trovato, soprattutto in Francia, il mezzo per essere liberi di esprimersi come ogni uomo libero.

Il sottotitolo che lo stesso Tuncboy (abbreviare il suo cognome è qualcosa che dà un certo sollievo…) imprime all’album rivela pienamente ciò che si andrà ad ascoltare: “avant garde folk music”. La grande tradizione popolare del paese dell’eccellente emigrato Charles Aznavour è naturalmente in primo piano nel progetto creativo di Arto, il quale rielabora sapientemente vecchie melodie, facendole passare attraverso una (per lui) necessaria lente border jazz, ottenendo in effetti risultati spesso assai interessanti. “New apricot” è un disco che si schiude ad ogni ascolto, mai banale, con arrangiamenti finissimi che flirtano appunto con certo jazz non ancora tumefattosi in quell’insopportabile esercizio di stile chiamato fusion. E’ importante inoltre notare che le composizioni sono tutte originali di Tuncboy, il quale si sobbarca pure testi ed arrangiamenti. Arto ci sa fare, passando da un ritmo acid jazz come in “Blue chesnuts” o la folle e velocissima “Rooster run” ad affascinanti impasti d’oriente (meravigliosa “My aunt Marì doesn’t care about my jacket”, dedicata all’amata zia morta; “Kudumda” zingara e felice; “Love, respects, truth”, arcana e solenne, un suono per un rito pagano). Registrato nella più classica delle porte d’Oriente, Istanbul, coi titoli in inglese, cantato quasi sempre in armeno, “New apricot” non è uno di quei frutti geneticamente modificati, di cui non sappiamo nulla fino al momento dell’Estrema Unzione. E’ di sicuro una contaminazione, che comunque avviene alla luce del sole, e che ottiene davvero qualcosa di nuovo e di positivo: musiche e stili diversi, certamente, ma soprattutto una grande passione ed attenzione per la nostra Terra e per il proprio vicino. Sì, “New apricot” emana luce, calore, simpatia, lealtà, comprensione. E’ solo un disco che, pur non volendo far politica, racconta più verità di cento incontri diplomatici tra teste dure. E allora, “Let’s have fun at the border”!

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *