Belle and Sebastian, Alcatraz (Milano) (16 aprile 2002)

Quello che tutta la gente stipata all’Alcatraz sta aspettando sta giusto per avverarsi: i ragazzi scozzesi attesi tanto a lungo stanno per materializzarsi sul palco. Prima, come ovvio, l’attesa. Addolcita dal conterraneo Eugene Kelly, un tempo membro dei misconosciuti Vaselines, che armato solo di chitarra acustica e armonica, e di un bel po’ di ironia, dimostra come le canzoni possano anche stare in piedi da sole, quando valgono davvero. Offrendo qualche vecchio classico, “Molly’s Lips” e “Jesus Wants Me for a Sunbeam”, entrambe rifatte tempo fa dai Nirvana, aiuta ad ingannare il tempo che manca all’arrivo dei Nostri.

Lascia il palco su cui dopo circa mezz’ora salgono Belle and Sebastian insieme a quattro violinisti sulle note gioiose di “Sleep the Clock Around”. La prima impressione è che Belle and Sebastian sembrano esattamente quello che ti aspetti. Stuart Murdoch con il suo incedere timido e buffo, Isobel Campbell che ha effettivamente quel contegno un po’ distaccato e un po’ trasognato che ti aspetteresti da lei, indossa un vestito bianco molto anni ’60 con stampata la faccia di Bob Dylan periodo “Highway 61 Revisited”. Magari il suono all’inizio sembra troppo appiattito, ma non ci fa caso proprio nessuno. Loro spaziano lungo tutto il repertorio, passando dai momenti più quieti a quelli più melodici, dalle partiture orchestrali a brani quasi scarni. Offrono molte delle cose più belle che hanno composto. E dimostrano di essere musicisti preparati, forse più di quello che si sarebbe creduto. Richard Colburne, ad esempio, suona la batteria in modo impeccabile e la faccia divertente di Mick Cook si muove con perizia tra i fiati e il basso. Stevie Jackson suona la chitarra e canta con molta energia, Stuart Murdoch che si alterna tra chitarra e piano, balla e salta come mai ti saresti aspettato. Restano sempre in Belle and Sebastian la semplicità e la spontaneità grazie alle quali sono diventati davvero grandi.

Quello che suonano va dai momenti più colorati, la marcia di “I Love my car” e una in fila all’altra “Wrong Girl” e “Dirty Dream Number 2” con il loro soul leggero, ai trascinanti aromi anni ’60 di “Legal Man” e “There’s Too Much Love”. A lasciare le emozioni più profonde sono comunque i momenti più intimi, tanto che viene da chiedersi come sarebbe vederli in un posto più piccolo e raccolto. Scorrono gli attimi struggenti di “Fox in the Snow” e del primo classico che hanno inciso, la splendida “The State I Am In”. E poi la loro canzone più delicata di sempre “Is It Wicked Not to Care?” cantata da Isobel Campbell con una voce tanto flebile che intorno si fa un silenzio assoluto, quasi ci fosse il rischio di non riuscire a sentirla. Oppure donano la splendida armonia pop di “The Boy With the Arab Strap”, che ricorda certe ballate distese dei R.E.M. di qualche tempo fa, che regala brividi a tutti.

Dopo un’ora e quaranta minuti di concerto, quando salgono sul palco per l’unico bis della serata e si congedano con il dolce racconto acustico di “If You’re Feeling Sinister”, non c’è davvero nient’altro che si possa chiedergli se non di ritornare presto.