CHEMICAL BROTHERS, Come With Us (Astralwerks/EMI, 2002)

Tanta acqua sembra essere passata sotto i “ponti elettronici” dei Chemical Brothers, dopo l’ultimo controverso “Surrender”. Ed e Tom tornano con “Come With Us”, un album decisamente “dance” che ugualmente non rinuncia a raccogliere vere e proprie “canzoni”, piuttosto che pure e semplici “tracce”.

Sicuramente l’habitat naturale dei Fratelli Chimici è la pista dei club, e ciò viene immediatamente ribadito nella title track che ha il compito di aprire il disco. Dopo un’introduzione baroccheggiante, con una prolusione di scale alla Dream Theater, ecco arrivare il tipico sound martellante e sintetico del duo, arricchito da voci filtrate e cori da stadio. Sicuramente uno degli episodi più riusciti del disco.

L’arduo compito di mantenere il livello alto dopo questo ottimo esordio viene affidato ad un singolo, “It Began In Africa”, brano tribal trance, in cui le drum machine si mescolano armoniosamente con percussioni “acustiche”. E proprio questo sapiente mix di “autentico” e “sintetico” costituisce sicuramente una delle cifre stilistiche più riconoscibili di questo duo elettronico, che non ha mai disdegnato brevi e fugaci flirt con sonorità e atmosfere rock. Un bellissimo esempio in questo senso viene dal singolo “Star Guitar”, in cui il riff portante è affidato ad uno strumento “alieno” (chitarra? tastiera?) che comunque ben simula una chitarra rock satura di compressori e flanger. Uno dei pochi modi per far entrare una Fender in un disco club.

Anche nel brano successivo, “Hoops”, il ritmo di drum machine che toglie il respiro ad ogni sedicesimo viene accarezzato gentilmente da finissimi strumenti a corda e da una specie di mantra che si ripete all’infinito. Altro brano non strettamente dance è il successivo “My Elastic Eye”, che gioca con un riff di tastiera alla Goblin sostenuto da un basso synth analogico. Sulla stessa linea d’onda troviamo “Pioneer Skies”, brano che si snoda su un arpeggio di clavicembalo sintetico, giocando su giri armonici molto anni ’70.

Ma, come si è già detto, c’è spazio anche per vere e proprie canzoni (forse che gli Air hanno insegnato qualcosa al popolo elettronico?). E così troviamo delicati brani come “The State We’re In”, affidato alla fragile voce di Beth Orton, o “The Test”, in cui il redivivo Richard Ashcroft si destreggia egregiamente all’interno di un giardino di suoni e colori vivaci e a tratti dalle sfumature rock.

La voglia di sperimentare e stupire certo non manca. “Come With Us” è un disco che sicuramente non annoia, e farà felici sia i maniaci della disco sia gli amanti della musica elettronica che, pur essendo un prodotto indiscutibilmente “commerciale”, offre comunque numerosi spunti interessanti. Album come questi ci illuminano chiaramente la via che prenderà il pop nei prossimi anni. Non perdiamoli di vista.

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