AFTERHOURS, Non è per sempre (Mescal, 1999)

Arrivati al terzo album in italiano gli Afterhours continuano la loro lenta ma assidua trasformazione, accentuando ulteriormente gli episodi pop e diminuendo drasticamente le dissertazioni vicine al punk e al noise.

Qui addirittura solo due brani si riallacciano a canzoni come “Germi” o “Dea”: la disperante e urlata “La verità che ricordavo”, dove tornano i temi della memoria e dell’insoddisfazione verso il proprio successo (“Spiego ai miei sogni il concetto di onestà, loro che si son trasformati in una professione adatta”) e la propria vita (“E dove fingo di non essermene accorto che non sto vivendo, sono morto”) e la coinvolgente “Non si esce vivi dagli anni ’80”, vera e propria dichiarazione d’intenti.

Gli altri pezzi si adagiano sul pop elegiaco della splendida title-track, sul dolce arpeggio che anticipa gli archi nella rilassante “Oppio” (“Il giorno sta crollandomi al rallentatore”), sull’ironia sottile e fremente di “L’inutilità della puntualità” (“Condizioni climatiche che mi rendono sterile”) dove torna la rabbia verso l’essere costretti in un ruolo (“decido quindi che per il nostro bene sarò noiosamente magnetico e intrigante”) e si arriva all’urlo definitivo, all’estrema, lacerante, verità (“Milano non è la verità!”) di “L’estate”, dove la voce di Manuel Agnelli si spiega in tutta la sua pienezza, e di “Bianca”, dove dietro la ritmica avvolgente (“Sei il colore che non ho e non catturerò”) si notano reminiscenze addirittura beatlesiane – con i dovuti distinguo, è ovvio -.

Sia in “Milano circonvallazione esterna” sia in “Tutto fa un po’ male” l’uso delle tastiere dona all’opera un’atmosfera quasi psichedelica, ipnotica, sonorità non spesso sfruttate dalla band, che dimostra comunque di sapervisi avvicinare con sorprendente facilità. Tralasciando l’episodio esclusivamente ludico di “Baby fiducia” – canzonetta senza pretese che mostra l’anima più bambinesca del gruppo – e quello non proprio originale di “Superenalotto” – divertente ma già sentita – rimangono i due brani finali. La lenta, emozionante, profonda memoria del lutto e della perdita di “Oceano di gomma” è la punta massima dell’album mentre la follia torna a far capolino in “Cose semplici e banali”, dalla quale fuoriescono anche bizzarri suoni elettronici.

Un lavoro bello e completo, non al livello del capolavoro “Hai paura del buio?” ma comunque decisamente superiore alla media degli album italiani. Il lato pop non disturba anche se si sente la mancanza della rabbia degli album precedenti.

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