NICK CAVE AND THE BAD SEEDS, Murder Ballads (Mute, 1996)

“Murder Ballads” è probabilmente il concept album più originale mai composto: se l’idea di concept album spesso è stata sfruttata per raccontare la storia di un personaggio (“Tommy” degli Who, “The Wall” dei Pink Floyd, “La buona novella” di Fabrizio De Andrè) la rilettura che ne dà Nick Cave – al suo ottavo lavoro solista – è deviante. L’album è infatti composto esclusivamente da “ballate omicide” (per l’appunto), racconti di delitti, spesso raccontati in prima persona dall’omicida o dall’ucciso. Delitti passionali, nella maggior parte dei casi, come nella splendida ouverture di “Song of Joy”, uxoricidi, infanticidi; materiale non facilmente digeribile, questo è certo, ma trattato con un fascino e una dolcezza incredibili.

L’arguto, fine, rabbioso Nick Cave degli esordi si è evoluto, ha arricchito i suoi arrangiamenti, ha allargato la band (ai soliti Mick Harvey e Blixa Bargeld si aggiungono altri musicisti, tra i quali Jim Sclavunos, il primo batterista dei Sonic Youth) e la sua genialità compositiva qui raggiunge uno dei suoi picchi più elevati. La voce cavernosa e squarciante del cantautore australiano scava nella profondità dell’anima ed è sempre più vicina al suo padre spirituale, il tanto (giustamente) adorato Leonard Cohen. Non solo la musica, la voce e i testi citano il cantautore canadese, perfino il libretto sembra riprendere alcune idee di “New Skin for the Old Ceremony”. Ma a fronte di questo palesato punto d’ispirazione, Nick Cave mostra di possedere il carisma per ergersi a punto saldo della musica contemporanea.

E in alcuni casi parlare di musica leggera sembra veramente sminuente, come quando si aprono le porte d’ebano dietro cui sono celate “Henry Lee” (insieme a P.J. Harvey), “Where the Wild Roses Grow” (ma possibile che quell’angelo sia Kylie Minogue???), “The Kindness of Strangers” con il pianto straziante ed etereo di Anita Lane. L’album si chiude come un ritrovo di amici, tutti a cantare intorno alla dolce melodia di “Death is not the End” di Bob Dylan. Al coro finale intervengono PJ Harvey, Shane MacGowan, Kylie Minogue, Thomas Wydler, Anita Lane e Blixa Bargeld. Un balletto delicato in omaggio di tutti gli omicidi, immaginari e non, sempre consapevoli di essere sempre innanzitutto omicidi di noi stessi. Una lezione di poesia e d’umanità unica nel suo genere. Forse, insieme a “Ok Computer”, il più grande album pubblicato negli anni ’90.

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