FRANCO BATTIATO, Ferro Battuto (Sony Music, 2001)

La prima impressione non è stata delle migliori. “L’Imboscata” ci aveva abituato troppo bene; “Gommalacca” riprendeva parte di “quel” discorso ma, in alcuni punti, appariva inconcludente. Questo “Ferro Battuto”, invece, lascia emergere subito i difetti di un’emoraggia creativa a favore di un’ulteriore semplificazione canzonettistica. Mai fidarsi delle prime impressioni, comunque..
Questo “Ferro Battuto”, dopo un po’, si lascia riascoltare e piacevolmente centellina, traccia dopo traccia, qualche suono che, probabilmente, si era perso tra la distrazione dei nostri pregiudizi.
Un album senza dubbio assai curato nei minimi particolari, felice di un fascino testuale che vede centrale l’apporto di Sgalambro.
Il Battiato anni Novanta riparte subito da “Running against the Grain”, infarcita dalla voce di Jim Kerr (ma questi sono i Simple Minds!?!): la semplificazione di uno spunto intelligente sminuisce il risultato finale. Meno convincente ancora è “Bist du Bei Mir” dove Don Franco si confronta con ritmiche latine su un tessuto timbrico capace di non fare onore al vituperato MIDI…
Per fortuna il livello si eleva nei brani più “intimi” come “La Quiete dopo un addio” e “Lontananze d’azzurro”, dove risulta assai interessante la struttura armonica ricca di modulazioni e passaggi/paesaggi memori di reminescenze classiche (si sente l’amore “volgare” e mai celato di Battiato per il Lied d’ascendenza postwagneriana).
Un altro amore, quello per la citazione, produce tre esperimenti con luci ed ombre: “Personalità Empirica” cita il Tchaikovskij del Piano Concerto e lo innesta in un fraseggio arabeggiante della brava Natacha Atlas tra sonorità digitali; “Hey Joe” abortisce chitarre e distorsori per una pacata ritrattazione quasi quartettistica fusa a trasfigurazioni vocali dal carattere salmodiante; “Scherzo in minore” produce un inedito Battiato che, quasi sogghignando, si confronta con una composizione di Django Rheinhardt e Stephane Grappelli.
Da citare il ritorno al dialetto siciliano con “Il cammino interminabile”, brano che recupera – ma non brillantemente – il sound degli anni ottanta integrato alla lezione di “Shock in my town”.
Dove Battiato, però, convince di più è in “Sarcofagia” (figlia di “Strani Giorni”) e nell’elaboratissima “Il potere del canto”. Vale la pena soffermarsi su quest’ultima canzone che, esauriti i primi tre minuti tra echi chitarristici, loop ossessivi e trattamento di voci, si lancia in una coda di oltre otto minuti densi di esperimenti sonori e vocali. Quasi una summa enciclopedica dei suoni inventati dai Minimalisti americani ai Kraftwerk.

Un disco non facilissimo, tutt’altro che banale ma, al tempo stesso, non troppo ispirato: in certi momenti sembra vivere di “luce riflessa”, sfruttare quella scia che ancora “rende”, però, in altri coinvolge e cattura l’orecchio. Merita più di un ascolto ma anche più di una critica.

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