Subito un consiglio spassionato: procuratevi con qualsiasi mezzo, anche con la forza, questo meraviglioso progetto degli islandesi Sigur Ros. Di fatto, si tratta di un vero e proprio poema sinfonico contemporaneo, un atto d’amore e di rispetto verso la loro terra, uno dei pochi angoli del mondo occidentalizzato ancora incontaminato. L’opera ha un magico fascino arcano, accentuato dalla scelta rigorosa di cantare nella loro lingua, mischiata per di più ad un vernacolo inventato dal gruppo. Chiaramente non si capisce nulla, ma ciò non ha alcuna importanza. Raramente come in questo caso la musica, il suono, è allo stato puro, con tutta la sua immensa forza evocativa.
L’album ha un’apertura mozzafiato, attraverso la Intro e l’accoppiata naturalista di “Svefn-g-englar” e “Staralfur”. La voce sottile e lontana, come un elfo che ci parla da qualche profondità, di Jon Por Birgisson s’inserisce in un contesto di rarefazione e ripetitività di fascino estremo, il quale sfocia nell’innocente serenità violinistica della citata “Staralfur”. La parte centrale è quella più elettrica ed introversa, dove si possono notare alcune affinità con i Radiohead, ai quali hanno anche fatto da gruppo spalla in alcuni concerti. Questo inquietante inverno di note vede finalmente il sole, un sole polare, troppo grande e troppo freddo, ma pieno di luce estatica, nelle eccezionali composizioni che vanno a chiudere “Agaetis byrjun”, partendo da un’emozionante “Vioar vel til loftarasa” (che sia la nipotina di “A day in the life”, ascoltate il finale…), proseguendo con “Olsen Olsen” (la canzone di Natale del terzo Millennio) e terminando con la title track. L’ultimo pezzo, “Avalon”, torna a rivestire di ombre lunghe e semi oscurità tanto il disco quanto le vite di questo popolo abituato a combattere ed asservire Madre Natura, godendo immensamente quando questa si concede, timida od esplosiva. “Agaetis byrjun” è tutto ciò, un naturale capolavoro.
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