ELLIOTT SMITH, Figure 8 (Kill Rock Stars, 1997)

La verità su Elliott Smith e sulla tragedia della sua morte è che noi non sappiamo nulla. Come ha scritto Philip Roth: “Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa”. Siamo impotenti di fronte a quello che è successo e tutto quello che conosciamo di Elliott Smith è la sua musica.
Le sue canzoni dolorose e profonde come ferite ancora aperte sono state il tentativo di spiegarci il suo disagio e la sua sofferenza. È stato questo modo di spogliarsi e di scrivere brani che raccontassero davvero le proprie inquietudini che ha reso Elliott Smith uno degli autori di canzoni più grandi, forse il più grande in assoluto, della sua generazione.

Ha saputo scavare nei propri demoni, nella propria solitudine senza alcun timore, con una leggerezza che è diventata il suo tratto distintivo. Se le sue canzoni hanno un’impronta classica, le melodie nitide che riportano alla mente Bealtes e Elvis Costello, ma anche i momenti intimi di Nick Drake e Gram Parson, nella sua musica e nelle sue parole c’è sempre questa sensazione di fragilità che ti lascia disarmato.
In “Either/Or”, che è il suo disco più bello perché è essenziale, intenso e pieno zeppo di canzoni immense, Elliott Smith canta la sua solitudine, il disagio di non riuscire a essere quello che si desidera, la sua vita. In ” Ballad of Big Nothing”, una splendida ballata ruvida ed energica, canta “Puoi fare quello che vuoi ogni volta che ne hai voglia, anche se non significa nulla, un bel nulla” e in “Alameda”, canzone accorata e malinconica, sussurra “Nessuno ti ha spezzato il cuore/ Te lo sei spezzato tu stesso perché non puoi finire quello che inizi”.
C’è questa drammaticità nei suoi brani, ma nessuna enfasi. Le sue canzoni sono toccanti e profonde proprio perché riescono a spiegare l’essenza di questo disagio con una crudezza, una semplicità che ricordano i migliori autori di novelle americani da Hemingway a Carver fino a Tobias Wolfe. Ecco perché Gus Van Sant ha scelto alcuni brani di questo disco per costruire la colonna sonora del suo “Good Will Hunting”, un film vicino alla poetica di Elliott Smith. Perché le sue ballate scarne sono cantate con un filo di voce e raccontano storie amare.
“Between the Bars” due minuti a cuore aperto che iniziano con i versi “Bevi tesoro, stai sveglio tutta la notte, con le cose che avresti potuto fare, non farai ma potresti”, è un ritratto crudo e toccante di sogni che si infrangono. Gli stessi arpeggi di chitarra acustica accompagnano le atmosfere notturne di “Angeles” e “2:45 AM”, brani tanto belli quanto pieni di inquietudini. Questa stessa sensazione di disagio affiora anche nei brani più veloci e melodici, quelli in cui le armonie prendono il sopravvento. Piccoli gioielli usciti dalla penna del musicista americano come “Speed Trials”, l’incedere sicuro di “Rose Parade” e la melodia delicata di “Punch and Judy”.
Dodici brani in tutto, che Elliott Smith compone e suona tutto da solo, capaci di esprimere dolore e rabbia con una grazia immensa, come solo i grandissimi artisti riescono a fare.
Ecco perché ci mancherà.

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