COLDPLAY, A Rush Of Blood To The Head (EMI, 2002)

Erano in molti a darli ormai per spacciati. Il classico gruppetto che imbocca per sbaglio le pericolose e ultraveloci autostrade del rock, per poi uscirne ammaccati al casello successivo. E invece non è stato così.

I Coldplay a tre anni di distanza dal pluridecorato “Parachutes” tornano con “A Rush of Blood to the Head”, un album che segna il passo in avanti che ci si augurava. Belle canzoni, melodie destinate al ricordo, eppure sempre al di fuori dei limacciosi campi dello scontato. A raccontarcelo ci pensa subito il primo brano, “Politik”, impensabile in un album come “Parachutes”: un battere lento ed ossessivo su cui si dipana una melodia acida e decisamente affascinante.

Ma niente paura, arriva subito dopo il singolone “In My Place” a fare da ponte tra i vecchi e i nuovi Coldpaly: il solito riff di chitarra, semplice ed efficace, e la suggestiva voce di Chris Martin; forse meno memorabile di una “Yellow”, ma altrettanto carica di quella “malinconica allegria” che ha regalato il successo a questi ragazzini inglesi.

Ma questo “A Rush of Blood to the Head” è soprattutto una bella risposta contro la noia di ascoltare dischi di altri artisti “coevi” i quali, una volta imboccato il filone fortunato, non si distaccano di un diesis (vogliamo parlare dei Muse?); in questo disco si respira la voglia di scrivere e suonare belle canzoni che si snodano per sentieri sonori e armonici i più diversi, e che sembrano già cariche di una storia e di un vissuto che non hanno e che forse non avranno mai. Almeno ci provano. Come “Clocks”, in cui gli arpeggi di pianoforte si danno il cambio con la voce che viaggia quasi da sola, quasi come non volessero intralciarsi a vicenda, lasciando spazio per una singola emozione alla volta.

Il giochino “riff-voce-riff-voce” sembra ormai consolidato, ma finché regala una tale ricchezza di idee, esso non accenna a logorarsi, anche se apparentemente rinchiuso all’interno di schemi fissi. Questo è il rock. E come stancarsi di pezzi come “Daylight”, con quel riff indianeggiante e quella sottile patina di “già sentito”, o “The Scientist”, melanconica ballata, degna erede di “Trouble”. Ma qui soprattutto c’è la maturità, e l’abilità di saper sfruttare tutte le “armi” della musica: la complessità per intrigare e la semplicità per colpire il cuore.

Semplicità avvertibile in particolar modo negli arrangiamenti, a volte sostenuti semplicemente da un pianoforte, una chitarra acustica (predominante in questo disco, a discapito delle fini tessiture elettriche a cui ci avevano abituato in “Parachutes”) e una batteria “spazzolata”.
Una manciata di belle canzoni, un ottimo disco, e una sincera promessa per il futuro.

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