tUnE-yArDs, “w h o k i l l” (4AD, 2011)

Per utilizzare una semplificazione si può dire che tra coloro che si occupano di storia della scienza, e più in generale di storia della cultura, si è sempre registrata una divisione: da una parte gli studiosi che trattano l’evoluzione del loro oggetto come una continuità indistinta, all’interno della quale è possibile rintracciare una periodizzazione, ma non segmentarla tramite rotture. Dall’altra invece, coloro che si propongono di sottolineare le discontinuità che turbano il corso storico, identificando il cambiamento con momenti di rottura traumatica. Conseguenza dei diversi approcci è una differente valutazione del ruolo del genio, di più, dell’ipotesi della sua esistenza: il genio è infatti da sempre colui che rompe la linearità, che introduce nuove modalità del pensare, dell’agire, del comporre. Per i primi il genio, propriamente, non esiste, per i secondi è il centro del progresso storico.

Ora, è piuttosto evidente a chiunque abbia una vaga idea della musica che tUnE yArDs, al secolo Merrill Garbus, propone, che quest’aria da trattatello semi-scientifico non si sposa bene con la materia della quale si intende parlare. Merrill è una nativa del New England, che fino all’uscita di questo “Whokill” si era sempre dedicata ad un noise-pop piuttosto classico, in particolare con il gruppo Sister Suvi. Già però nel primo album solista, “Bird-Brains” erano presenti i disturbanti elementi che rendono “Whokill” un’opera decisamente originale, spiazzante, tanto apparentemente frivola e dissacrante (in “Riotriot” Merrill confessa le sue debolezze nei confronti del fascino della divisa, nonostante le non gentili pratiche applicate, nel testo, a suo fratello) quanto complessa ed impegnativa durante l’ascolto.
Problema: gli ambiti sfiorati da “Whokill”, soprattutto se proposti in un unico calderone, tendono di solito a creare mostri. Dal folk urbano con tinte lo-fi, al rock rumoristico che non rinuncia alla melodia, fino all’afro-pop con tanto di ukulele, la Garbus sembra proprio percorrere i territori che avvicinano all’inevitabile stroncatura. Come vuole l’adagio, se non sei i Talking Heads (o al massimo i Dirty Projectors, cui Merrill ha fatto da spalla), lascia stare l’afro. Il risultato è, in effetti, indubbiamente controverso. L’inizio, certo, è folgorante: “My Country”, indubbiamente il momento più alto dell’intero album, rappresenta un solare incrocio di culture sul quale si staglia una voce sorprendentemente soul. A questa seguono “Es-So” e “Gangsta”, il cui attacco funk induce a gridare al capolavoro, se non fosse per il deludente seguito che rende il pezzo un autentico manifesto dell’intero album. Una formula così ambiziosa finisce infatti per pagare, alla distanza, un prezzo piuttosto alto: quando vira verso un pop più semplice e compiuto tende a rendere manifesta la fondamentale semplicità compositiva dei pezzi, risultando noiosa e priva di sorprese, è il caso ad esempio di “Doorstep”. Quando invece lascia esondare tutto l’eclettismo e la sua magmatica capacità di sintesi, Merrill non sempre sembra in grado di dare forma compiuta ad un così ampio spettro di influenze ed assonanze. L’intera seconda parte dell’album è affetta da questo problema, inducendo a pensare che non si tratti di un caso, ma di un difetto connaturato alla brillante, ma fin troppo “a presa rapida” proposta legata all’etichetta tUnE yArDs.

Restano i due elementi che, ad un primo approccio impressionistico, conferiscono a “Whokill” un fascino, per così dire, “estremo”: l’indubbia originalità che caratterizza l’album, figlio di un eclettismo, sia vocale che più generalmente compositivo, inteso nella sua accezione più positiva, merce rara in tempi di riproposizioni edulcorate e feticismi ingiustificati, ma soprattutto un senso di radicalità sperimentale che più che influenzare il giudizio sull’opera stessa, va ad onore dell’autrice. In più, la capacità di evitare esotismi neo-coloniali, o romanticismi da folk impegnato.
Genio? No, probabilmente. O meglio, forse, nel modo in cui si può esserlo di questi tempi: se è vero, come voleva Deleuze, che la filosofia fa i concetti e l’arte i percetti, allora, per restare filosoficamente “in zona”, i percetti di tUnE yArDs sono frutto non di un atto di creazione, ma di un processo di ricombinazione. Non è nuovo, ma lo sembra decisamente.

68/100

(Francesco Marchesi)

29 Ottobre 2011

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