LYKKE LI, “Wounded Rhymes” (Atlantic, 2011)

Sembrano ormai parte del passato i tempi in cui saltellava come una pre-adolescente in calore tra le scale mobili della stazione ferroviaria di Malmo nel videoclip di “Dance Dance Dance”. Era il 2008, noi avevamo lanciato un messaggio all’etere nel secondo volume della rubrica kalporziana IKEA-POP sui nomi emergenti della scena svedese. Cui lei, meno che ventenne sembrava poter dare uno scossone. Non che se ne avvertisse il bisogno per l’esplosione di innumerevoli connazionali. In una scena già in fervore da qualche anno. Monopolizzata dall’indie-pop e fatta di strambi e giovanissimi personaggi. Se fossero riscritte nel ventunesimo secolo le fatali favole tradizionali svedesi non sarebbero popolate da cigni e ammalianti principesse rinchiuse in fari. Ma da secchioni un po’ brit un po’ gagà, slanciati improbabili vichinghi sbarbati per esigenze di genere e ninfette slavate. Con le claustrofobiche foreste trasfigurate nella fugace Stoccolma di Stieg Larsson. All’ultima categoria, quella delle slavate, appartiene a buon diritto Li Lykke Timotej Zachrisson, al secolo Lykke Li.

Dal sud del sud della Svezia, Ystad, finibus terrae della Scania. Dopo un lungo peregrinare tra Portogallo, Marocco, India, Nepal fino a Stoccolma. Figlia d’arte, in pochi anni dall’anonima esperienza in un’improbabile riot-grrl band al rango di nuova Bjork della scena indipendente. Con collaborazioni illustri e inviti a festival internazionali. Tutto nel giro di pochi mesi, dopo il folgorante esordio “Youth Novels”. Sbirciare il suo nome tra i credits dell’ultimo dei Primal Scream, dei Kings Of Leon, dei Royksopp, dei Kleerup e addirittura di Kanye West.

La stellina svedese giunge dunque al delicato varco del secondo album con un carico di responsabilità non da poco. E ancora una volta con al suo fianco il demiurgo delle nuove sonorità swedish, il signor Bjorn Yttling (uno dei re magi Peter Bjorn & John), agente immobiliare nell’averla spedita a registrare a Echo Park, Los Angeles, questo “Wounded Ryhmes”. A Stoccolma l’inverno è troppo freddo. E alle 13 è già tramonto. Alle 14 notte fonda. Questa la spiegazione di Lykke per il suo trasferimento forzato in California. Come darle torto. Per fortuna nessuna deriva da vita da spiaggia a snaturare le intense e algide atmosfere della venticinquenne. Malgrado l’affiancamento di Rick Nowels, recentemente al lavoro con Madonna, Nelly Furtado, Cee-Lo. In fondo Lykke Li, la tristezza ce l’ha dentro. Nelle stesse dichiarazioni d’intenti, ha ammesso di essere andata a Los Angeles in cerca dei paesaggi cari a David Lynch, Neil Young e Doors. L’introduttiva “Youth No Pains” con quell’hammond ubriacante sembra davvero Madonna playing The Doors. Una sorta di Ciccone Morrison, per fare il verso al progetto Ciccone Youth della Gioventù Sonica. E poi ancora in “Rich Blues Kids” in cui il piglio acido è sovrastato da un’efficacia pop disarmante.
Sospiro profondo. Di sollievo. Il sole non poteva darle alla testa. I due singoli estratti dal nuovo LP lo palesano senza mezzi termini. In “Get Some” si immedesima in una prostituta. Perfetta simbiosi tra ghiaccio e marziale andatura tribale. In “I Follow Rivers” un latente retrogusto r’n’b – comunque non estraneo ai tratti più black dell’esordio – sembra affiorare dagli inferi. Meno Kate Bush, più M.I.A. Lykke Li ha voglia di divertirsi.
E il resto dell’album segue questa scia die Brucke. Tinte calde e fredde con il timbro vocale anemico di Lykke sempre meno derivativo. Solo potenziali hit da dare in pasto ai deejay più influenti per spietati remix? Tutt’altro. Lei è nata come cantautrice. In “Unrequited Love” e “I Know Places” sfodera tutto il suo effimero calore soul. La giovane musa del pop elettronico scandinavo a tratti atterrisce per la maturità delle scelte stilistiche. Una quarantenne nel corpo di una venticinquenne. Bjork, cui era stata superficialmente accostata, non scrive da un pezzo ballad glaciali e minimali della qualità di una “Silent My Song”. Laddove, come in “Jerome”, emergono i primi sentori di una certa monotoni, per il timbro caratteristico, ma pericolosamente monocorde, la cura nei suoni di Bjorn Yttling, co-autore di tutte le dieci tracce, tiene su tutto.

Gli USA hanno St. Vincent, l’Inghilterra ha Bat For Lashes. La Svezia ha Lykke Li. E, per la gioia di quest’ultima che più volte ha lamentato le ovvie attenzioni maschili estere per una giovane svedese, unicamente per il talento artistico.

77/100

(Piero Merola)

16 marzo 2011

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