DAUNBAILO’, Daunbailò (Strafactory, 2003)

Un blues sporcato, pronto a trasformarsi in un ritornello puramente pop, mentre synth e chitarra incidono con acidità. Questa è “Anima muta”, il brano che apre l’album di esordio dei Daunbailò: se musicalmente si notano intuizioni non disprezzabili (anche se il ritornello appare come un corpo estraneo appiccicato senza troppa freschezza né convinzione al pezzo) si nota anche, e in maniera forte, il male che sembra affliggere ormai da anni una certa musica italiana.

Innanzitutto l’apparente incapacità di comprendere come l’uso della lingua italiana presupponga non una mera esposizione di vocabolario ma qualcosa di più logico, di più articolato. In questo sono stati maestri, agli esordi, i Marlene Kuntz (ma anche loro sembrano aver perso la strada) e sono stati discepoli, sempre meno bravi, centinaia di gruppi venuti alla luce in seguito.

L’insieme appare più coeso già nella seconda traccia, “Trio”, base ritmica ipnotica su cui si dipanano le voci. In “Pieno di luna” si scende in un’atmosfera quasi da bossanova, dimostrando un’intenzione di base che ha in sé qualcosa di cantautoriale e di “intimo”. Tra gli episodi migliori sicuramente “Hotel Miramar”, dove la struttura viene continuamente minata da rumori, battiti e sporcizie musicali, “Urska Salomé” nettamente debitrice dell’avventura compositiva di Goran Bregovic e Vinicio Capossela (e anche il cantato mostra derivazioni inequivocabili), il dolore infinito e ottundente di “Dio d’acqua” e in principal modo l’improvvisa danza elettronica di “Sonat sonat sonat sempre”, forse l’unico brano che mostri realmente la voglia di rischiare qualcosa di più.

Interessanti “Dido” e “Con la chitarra sul tetto in un giorno di vento” che vivono della stessa vita, con la prima che appare quasi un intro alla seconda – che si apre citando lo “Yellow Submarine” film -; peccato che musicalmente entrambi i brani non dicano nulla di particolare né aggiungano nulla alla stessa avventura Daunbailò. Daunbailò che è un film prima ancora di essere musica, plasmato dalla mano sapiente di Jim Jarmusch nel lontano (??) 1986 e interpretato da John Lurie e Tom Waits. Ogni tanto sembra di poter sentire in quest’album echi dei due musicisti, soprattutto di Waits, ma neanche questa sensazione riesce realmente a concretizzarsi.

Ecco, il problema principale di questo esordio è quello di non saper concretizzare le intuizioni (che ci sono), lasciando tutto in un limbo indistinto e che ha in sé ben poca attrattiva. La band deve crescere, ora come ora sembra solo un brutto anatroccolo la cui trasformazione in cigno è al di là da venire.

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