Share This Article
Psichedelia al rallentatore, lontana da questo mondo veloce
Volevo un titolo ad effetto per sollevare la questione condivisa da molti “a freddo” dopo il concerto di The Brian Jonestown Massacre martedì 6 Maggio 2025 all’Alcatraz di Milano.
C’è ancora bisogno della band guidata da Anton Newcombe? Se dal lato creativo il nostro non si è mai risparmiato, producendo tre dischi di qualità in tre anni (Fire Doesn’t Grow On Trees, The Future Is Your Past e la collaborazione con Dot Allison), da quello pratico si intuisce che sta facendo i conti con una grande stanchezza, amplificata da un tour in bus fra Europa e Regno Unito che metterebbe in difficoltà chiunque. Non ultimo l’amico di una vita al tamburello Joel Gion che, colpito da un malore a tre quarti di set, è stato portato via in ambulanza.
La formazione di San Francisco sale sul palco dopo la buona apertura offerta dagli Errorr, quartetto berlinese che unisce rumore e melodia incidendo per la Fuzz Club. Insieme a Anton suonano i chitarristi Ricki Maymi e Hákon Aðalsteinsson, il bassista (direttamente dai 60s) Hallberg Daði Hallbergsson, il batterista Uri Rennert e Emil Nikolaisen a tastiere, chitarra, flauto oltre al già citato Gion. Sono le 21.30 e mi guardo intorno: la capienza dell’Alcatraz è stata sì limitata, ma il parterre risulta gremito della tipologia di gente più diversa, ragazze sui venticinque anni con l’ex-Stones Brian sulla t-shirt contro fattoni che iniziano a urlare e spintonare, esaurito il budget per i drink. “Maybe Make It Right” in partenza non regala lo stesso effetto del brano in studio, mentre le classiche “Vacuum Boots” e “That Girl Suicide” escono più blues che psichedeliche, con la voce di Newcombe flebile e sofferente.
Tra le prime lamentele del leader con i fonici si consuma la sequenza dedicata agli ultimi due dischi (intrecci melodici stupendi in “Fudge”) per poi avventurarsi in “Days, Weeks And Months”, un country venato di gospel alla Spiritualized da Revelation del 2014. Peccato che tutto avvenga al rallentatore, visto che Newcombe si sposta di posizione dopo ogni brano, ricontrolla le accordature e diffonde inquietudine anche negli altri musicisti quasi che si tratti di una sfida all’evento stesso.

Le mille facce di un leader sui generis
Alleghiamo quindi un suo post Instagram del day after al gusto di veleno e vanità, prima di continuare il racconto, e qui ci sgancia due bombe di metà nineties come “When Jokers Attack” e “Anemone” e qui non c’è critica che tenga, o droga necessaria. Solo musica che sanno fare in pochissimi. Ma è la calma apparente prima della tempesta: l’ennesimo sfogo con i responsabili al mixer, e il sound è davvero piatto infatti, una “Nevertheless” un pò tirata via e i brani di Fire Doesn’t Grow On Trees suonati tra alti (“You Think I’m Joking”, con l’ottima performance di Rennert) e bassi (“Don’t Let Me Get In Your Way”, quando esce di scena Gion).
Io sarei già stato contento per il finale da afterhour con “Servo”/”Supersonic”, i due visionari pezzoni da Give It Back!, tuttavia bisogna mettersi nei panni di chi fa tanta strada e paga per ascoltare un’ora effettiva di musica, piena di tensione e fastidi vari, con al centro un uomo che ha un bypass cardiaco, un passato di dipendenze e un ego risoluto tanto è votato a una sua idea di perfezione. Mi mancherà solo una foto con lui, l’ho beccato uscendo ma tirava dritto, ciò non vuol dire che non ci sarà un’altra occasione in cui le cose andranno per il verso giusto.

(Matteo Maioli)