U.S. GIRLS, “Bless This Mess” (4AD, 2023)

Pubblicato a tre anni di distanza dall’ottimo Heavy Light e a cinque dall’altrettanto notevole In a Poem Unlimited, Bless This Mess conferma che Meg Remy è una delle stelle più incandescenti e al tempo stesso criptiche dell’alternative art pop statunitense grazie a un album sempre in bilico tra crudo realismo e cinica ironia con la quale la cantautrice prova a venire a capo in qualche modo della soffocante e indecifrabile contemporaneità.

Meg Remy non è qui per consolarci. Le tematiche che attraversano le sue opere, che si tratti di crisi climatica, disequilibri sociali, decadenza della politica e traumi personali e generazionali, non sono mai trattate col distacco e con la freddezza con le quali taluni potrebbero, invece, maneggiarle. Schiettezza e disillusione, pur accompagnate da una gentilezza quasi ineluttabile, sono forse i sostantivi più corretti in relazione al modo con cui Remy affronta ciò che decide di raccontare attraverso il pop sperimentale che ha deciso di abbracciare.

Tuttavia in questa nuova opera il modo di Remy di approcciarsi alle storie che narra è differente: è meno rassegnato e in un certo senso più energico, come se la catabasi compiuta nelle due opere precedenti virasse all’improvviso verso l’alto: come Dante e Virgilio che cominciano a salire dopo aver visto Lucifero, Remy ha esplorato i sentieri più oscuri del suo io ed è finalmente pronta per l’ascesa.

In questo percorso anche catartico, però, le intrinseche difficoltà che la musica di U.S. Girls ha come tatuate sulla propria pelle non crollano, e questo è uno dei punti di forza più solidi del disco. Bless This Mess non si allontana da quel luminoso synth pop visionario psichedelico che ha edificato i dischi precedenti, probabilmente di qualità maggiore rispetto a questo, che tuttavia mantiene alta l’asticella e che aggiunge alcuni tasselli fondamentali al discorso in itinere di Remy. Il massimalismo delle produzioni e della strumentazione resta, e diventa, se vogliamo, maggiormente concentrato, non più così centrifugo com’era un tempo, e la centralità di Remy, della sua voce e della sua persona in toto, non è mai messa in discussione. Basti pensare alla title track, evocativa e ipnotica, sotto ogni aspetto vintage, come sottolinea con raffinatezza il suo video, dove dopo il temporale sembra emergere la luce, anche se a fatica e in lontananza. «And there’s nothing unnatural under the sun / Everyone’s a baby at the start of this run», canta Remy; la sua voce è circondata da una melodia a spirale che la trascina in alto e in basso e prova a portarla via con sé.

Questa atmosfera onirica e ancorata a un tempo incerto e ormai sepolto, privo di una connotazione chiara, trasparente e quasi plastico, emerge anche in “Only Dedalus”, completamente in linea con la poetica di Remy e il suo gusto per l’R&B e il funky dei ‘70s: su un tappeto di note maliziose che i synth fanno piovere dall’alto Remy balla quasi con la voce, scivolando sulle rose lanciate dagli strumenti, mentre il tema corrosivo del brano, un attacco ai tecnocrati imperanti ormai worldwide, amplificato dalla scelta di far uso della mitologia greca, crea un’atmosfera alienante e spiazzante, portandoti a fonderti con il beat contagioso nel quale il testo quasi finisce per sciogliersi.

Si è attratti dalla vitalità avvinghiante e seducente che Remy sa dipingere lungo tutto il corso dell’opera. Le altalene emozionali della coinvolgente “Just Space for Light” giustappongono momenti più vicini a quelli di una ballata art pop in pieno stile David Bowie di Hunky Dory e momenti che affondano le loro radici nei primi lavori di Prince, strizzando l’occhio al travolgente funk afroamericano dell’epoca. Al tempo stesso la disorientante e adamantina “Futures Bet”, co-prodotta dal marito Slim Twig, nel suo ripetere maliziosamente «Breathing in, breathing out», prova a spiegarci come uscire dai momenti di ansia e panico senza dare una risposta vera e propria e non prima di averci ricordato, con tono alquanto sardonico, che «When nothing is wrong / Everything is fine», affermazione della quale è lecito dubitare.

Il brano, come molti altri in Bless This Mess, è un ossimoro vivente, come il titolo del disco, dove su un’ironia graffiante e incontenibile prova ad alzare la testa un flebile raggio di speranza, più simile, talvolta, a una spietata e irrimediabile arrendevolezza ai tempi e al mondo in cui viviamo; è in questo spiraglio di luce, a metà tra un auspicio e una più pragmatica sopportazione dello status quo, che trova spazio anche il dissenso, la battaglia, forse accentuata anche dal fatto che Remy ha scritto e inciso il disco mentre aspettava due gemelli: è per loro, sembra dirci, che ha ancora un senso opporsi a tutto ciò che sta distruggendo noi e la società in cui siamo nati e che per chi oggi viene al mondo è un vaso sempre più in frantumi.

È proprio questo aspetto, forse, a rappresentare una delle più interessanti novità di Bless This Mess. Nella elegante e dolcissima “St. James Way” le batterie e i synth incalzanti si incrociano con note oniriche di pianoforte e con la voce spiritata di Remy, che prova a far valere i suoi principi dentro il caos disorientante del capitalismo più sfrenato e di una globalizzazione sregolata che ci accerchia e ci insegue e che rischia di farci impazzire. «I don’t want a castle, just a door to shut», canta Remy, suggerendoci di stare cercando un rifugio nell’οἶκος, nel suo nuovo ruolo di madre, dimensioni nelle quali, sembra dirci, condurrà una lotta ancor più aspra e radicale.

75/100

(Samuele Conficoni)