[#tbt] Un decennio di Field of Reeds

Juncus effusus, seguendo la tassonomia linneana, è il nome latino affibbiato al giunco (reeds), una pianta erbacea altamente invasiva che cresce perlopiù in prossimità delle paludi. Nella mitologia egiziana, i campi aaru (i giunchi, appunto) rappresentano una sorta di spazio liminale da attraversare se si desidera e si è degni di approdare nell’Aldilà. E passare per un campo di giunchi è un’impresa a dir poco ardua, possono raggiungere i centotrenta centimetri di altezza e strisciare fra di loro formando nodi talmente fitti da non essere raggiunti dalla luce del sole. Anche nell’immaginario comune, mi sento di dire, evocano qualcosa che la società occidentale a partire dalla sistematizzazione dell’urbanistica come strumento di pianificazione in poi si è concessa ben poco, e sempre in modo piuttosto spettacolarizzato: la wilderness, l’incontaminazione. Un field, al contrario, segnala sempre l’agentività antropica. Un campo è simbolo di terra domata per la produzione e il giunco non ci cresce mica in mezzo.

Field of Reeds è spuntato esattamente come una graminacea nella discografia dei These New Puritans, è per certi versi il loro Spirit of Eden (anche quell’album aveva una pianta sulla copertina, dopotutto). Terzogenito dopo una parabola abbastanza mediocre come artisti post-punk e l’ennesima rivisitazione dei The Fall, Field of Reeds è il risultato del coraggio di Jake Barnett di reinventarsi nel neoclassico. I paragoni sono quasi del tutto inutili quando si recensisce musica ma è impossibile non chiamare in causa qui il grande minimalismo britannico: Brian Eno, Mike Oldfield, Philip Glass (ovviamente). Questa linea compositiva, come scriveva già Jacopo Boni su Kalporz quasi dieci anni fa oramai, ci presenta un lavoro molto più disilluso e maturo rispetto ai suoi predecessori, anche nella melodia più marcata del disco, ossia “Fragment Two”, che strizza deliziosamente l’occhio alla Penguin Cafe Orchestra. È un disco per puristi del suono che fa proprio l’abbandono della corporalità del minimalismo e l’acquisizione di atmosfere più areali, frutto della collaborazione con la Stargaze Ensemble e la Synergy Vocal Ensemble.

Il lato nascosto di Field of Reeds è l’utilizzo dello spazio e le dinamiche di intensità che in modo piuttosto blasfemo mi ricordano Hex, il capolavoro post-rock dei Bark Psychosis pubblicato nel ’94, e non lo dico solo perché Graham Sutton tiene le redini della produzione di questo disco. Hex è nel modo in cui la tensione cade e si riprende nella sezione di ottoni in “The Light in Your Name” o nel crescendo di “Organ Eternal”, un climax finale così drammatico da far invidia al Tristano di Wagner (anche se, devo mettere, ciò che ne esce fuori è molto più simile a una composizione di Philip Glass). Ci si perde quasi nella sua ampiezza e il sentimento è certamente intenzionale. Field of Reeds dopotutto non è altro che un grande esercizio di topografia britannica, che il paesaggio lo si interpreti con la pedanteria dell’espressione “panorama musicale” o che, forse con meno pretese, ci si lasci sorprendere dalla maestosità di una canna di giunco.

(Viviana D’Alessandro)