Julien Baker canta l’emotività

Julien Baker, Hall, Padova, 4 Maggio 2022

Quando finisce “Hard Line”, prima canzone del concerto, Julien Baker indietreggia di un passo, storce la bocca e si dà una piccola botta sulla testa, da dietro, quasi a colpevolizzarsi di qualcosa. Non sarà l’ultima volta in cui si muove sul palco con un atteggiamento intensissimo, diviso tra qualche sorriso e istanti in cui pare quasi piangere e poi muta il viso e torna a rilassarlo, finita la canzone. La sensazione che si respira nell’aria è di una emotività intensa, trattenuta, di qualcosa allo stomaco che non esce, anzi viene trattenuto. Si badi bene: non c’è giudizio tecnico sulla performance. Quando si presenta “il cantautore” sul palco, normalmente si sa cosa ci aspetta: l’esibizione più o meno intensa delle proprie canzoni. Ecco, in questa scala di sfumature che spesso in Italia dividiamo tra “canta bene” e “canta male” esiste lo spettro di “cosa comunica”.

Julien Baker comunica timidezza, decisione, ferite laceranti, un animo dolce, la proiezione di molte colpe su sé stessa, la voglia di essere adulti. Esegue una canzone, forse “Song In E” suonando sola e si ferma, riparte, sospende e guarda nel vuoto e riparte e si ferma e fa una pausa e finisce e le vedi il naso farsi rosso come alle persone che stanno per piangere. E’ un gesto di scena? E’ pura intensità? Spostando il nostro sguardo, cosa percepisce il pubblico? Quella ragazza mora che era arrivata apparentemente sola con uno zaino nero e che fissava avanti con l’espressione di chi è venuto ad una serata veramente importante, cosa fa? Sbatte le palpebre, furiosamente, tre o quattro volte per secondo, immobile, nascosta sotto una mascherina, anche lei finge o come sembra ricaccia indietro le lacrime solo perchè siamo in pubblico? Le persone dietro, venti, venticinque, massimo trent’anni, una platea non enorme, complice forse la frattura tra uscita del disco e concerto (oltre un anno, grazie Covid) che di minuto in minuto cantano interi passi delle canzoni, a bassa voce, stanno divertendosi o parlando di sè stesse, delle proprie lacerazioni interne, come Julien?

Ripetono le parole, i crescendo emotivi di una artista che ha ampliato il proprio bagaglio “tecnico” in quell’ultimo “Little Oblivions”, e che ora sul palco spinge una formazione a 5 che suona in maniera imponente e crea muri di suono non indifferenti e sospinti da quel sussurro, da un crescendo emozionale fortissimo. E forse il fatto che non si sia percepito moltissimo nei primi pezzi viene dall’apertura dei Ratboys, una band completamente diversa e divertente, che ha il sapore del college, delle avventure, dell’adolescenza, dei ritmi che conosci e che invece balli lo stesso. I Ratboys ti raccontano il testo di “Elvis is in the freezer”, storia di un gatto amato e morto durante la lontananza della cantante al college e allora tenuto in congelatore per una degna sepoltura di famiglia, al ritorno qualche mese dopo. Davvero, storia vera. Raccontano la felicità di vivere, suonare, sorridere, colpire la cassa della batteria con decisione, con un innato senso melodico che gli consente di essere freschi quanto derivativi.

i Ratboys

Così quando Julien entra in scena, armata (vocabolario non a caso) di chitarra e non imbraccia quella chitarra, ma la vive, la sposta, la allontana, la ruota, la accorda visibilmente spesso insoddisfatta eppure sorridente, vive questa estensione del corpo come distante quanto inseparabile, un arto aggiuntivo che le dà energia e contemporaneamente la toglie. Io, da sotto, ho avuto la netta percezione che salire sul palco per Julien Baker sia difficile. Non a livello tecnico, ma emotivo.

Io da dentro, ho avuto la netta percezione che per una buona metà del pubblico almeno, fosse questione di sentire cantare della propria vita e della propria emotività, nè più nè meno. Da fuori, infine, che sia stato un concerto che si potrebbe mostrare a chi, in Italia, racchiude tutto in cantare bene e cantare male (Julien canta e suona bene, tranquilli). E spiegargli che è questione di quali note attraversano il tuo corpo e che ovviamente non tutti siamo uguali, non a tutti ci arriva lo stesso spettro di colore, anche dalla stessa immagine. Ma da una serata così, sicuramente, ci si porta a casa un bagaglio emotivo di rara intensità. A noi poi farci i conti: i concerti finiscono e si torna alle nostre macchine, ognuno verso la propria vita.

Solo, rimane qualcosa addosso: per chi scrive sono le lacrime non versate, da Julien o da quella ragazza mora, o da quella persona dietro o da quella davanti: avesse toccato terra una di quelle, ne saremmo stati travolti tutti.

(Alessio Falavena)