[LineaNota] Valeria Sgarella, “Seattle. La città, la musica, le storie.”

Seattle è una casa in cui non abito più, dice Mark Lanegan. Eroe e protagonista di quella scena grunge che sembra appartenere a un’epoca remota, tanto da essere già oggetto di archeologia sentimentale per i nostalgici e i curiosi. Per coloro che si mettono alla ricerca di fatti già accaduti ormai consegnati alla Storia, che è un terreno ricolmo di fantasmi e assenze di un presente ignaro, come diceva quel tale, Valeria Sgarella, in “Seattle. La città, la musica, le storie”, ci consegna un’affascinante retrospettiva della città del Northwest con uno stile narrativo in grado di sollevare la cronaca giornalistica e farne letteratura, senza aggettivi. Giunta alla terza opera, dopo essersi occupata dei caduti e degli sconfitti della città (Andy Wood dei Mother Love Bone, per dirne uno), era ora di una guida, un libro di viaggio che fosse anche romanzo di una comunità speciale. Come pochissime altre realtà sparse negli Stati Uniti, Seattle rappresenta una culla per il talento e per il genio, che lì ha modo di esprimersi ed esaltarsi. Fino a spegnersi. In questo l’autrice è sincera: la città è fatta di assenze, di cadute e ricadute. Ma proprio per questo appare ancor più straordinaria, perché in mezzo a rovinose storie di anime fragili destinate a soccombere sono decine gli esempi che ne contraddicono un certo racconto viziato e superficiale. Al termine della lettura le incrollabili certezze accompagnate da quella dose letale di nostalgia cui siamo soggetti noi reduci ascoltatori si dissolvono e finalmente possiamo chiudere il cerchio della nostra adolescenza.

In ogni capitolo, ciascuno con il nome di un quartiere, l’autrice attraversa curiosa le strade e gli angoli di Seattle, aiutata dai bus che conducono ai margini, anche sociali, di una metropoli cui tocca fare i conti con il fenomeno degli homeless, ancora tanti, forse troppi. La ricchezza e la dinamicità qui si scontrano con le disuguaglianze spesso severe, proprie dell’intera società americana. In questo la città non si discosta dagli altri grandi centri del paese. Il rock alternativo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo è una bussola emozionale che consente all’autrice di aggirarsi tra le macerie di una città mai uguale a se stessa. Permettendole, al contempo, di richiamare lo spirito di un tempo antico. Nel quartiere di Queen Anne, dal sottotitolo eloquente “Vita e morte del Grunge”, ci inoltriamo nel Seattle Center da cui è possibile ammirare il simbolo più importante della città, forse l’unica struttura davvero conosciuta anche da chi faticherebbe a collocare Seattle sulla cartina: lo Space Needle, “la torre a forma di fungo magico che indica la via del cielo”. A pochi passi il Murial Amphiteatre, da cinquant’anni luogo di eventi e concerti organizzati dall’emittente radiofonica indipendente KEXP 90,3 FM che da lì trasmette. I primi live degli Alice in Chains, Soundgarden, Mudhoney furono organizzati in questo spazio all’aperto. Uno dei concerti più importanti del periodo è ancora nella mente e nel cuore dei presenti: “il 23 agosto 1991, quattro giorni prima dell’uscita dell’album d’esordio Ten, i Pearl Jam tennero un concerto di quarantotto minuti, che si apriva con la canzone ‘Once’. Eddie Vedder si arrampicò su una torre di amplificatori a lato del palco e, ondeggiando, lanciò uno sguardo di meraviglia allo Space Needle, che si stagliava maestoso dietro di lui. Pochi istanti prima, aveva dedicato Deep a Freddie Mercury”. In zona sono tanti i palchi che hanno tenuto a battesimo una manciata di musicisti i quali tutto si sarebbero immaginati tranne di diventare icone di un’intera generazione. E la loro scomparsa dalle classifiche ha coinciso con la scomparsa di quei luoghi che prosperavano grazie all’enorme seguito del pubblico, composto da giovanissimi americani alla ricerca di chi li rappresentasse, attratti com’erano dal successo dei loro idoli, molti dei quali assai velocemente sprofondati nel vortice delle sostanze.

È una presa d’atto la trasformazione identitaria della città: da mecca della musica rock, e non solo, a città rampante, brulicante di startupper e informatici, sempre più trainata dall’economia hi-tech, dove il colosso Amazon, “the big A”, ne ha inglobato una parte consistente. Dove c’era desolazione, come dalle sue stesse ceneri, la fenice di Jeff Bezos ha costruito il suo impero. E sono migliaia i dipendenti che passeggiano col badge blu o giallo, a rimarcare un’appartenenza aziendale distante anni luce dalla militanza dei rocker in camicia di flanella. “South Lake Union non era esattamente il paradiso dello sviluppo infrastrutturale, prima che Amazon, nel dicembre del 2007, annunciasse il suo piano di trasferimento dalla vicina città di Bellevue, sulla sponda orientale del lago di Washington”. Non c’è azienda nella storia imprenditoriale americana che abbia modificato il tessuto socio-economico di una città più del gigante dell’E-commerce. “Oggi gli uffici ultramoderni e i campus di Amazon occupano a Seattle qualcosa come 1.100 chilometri quadrati. Per il 50% si tratta di edifici di proprietà, per il restante 50% sono spazi in affitto. Il più ampio tra gli edifici è il complesso Troy Block, conosciuto come Houdini. Ogni palazzo o torre ha un nome specifico, derivante da un particolare più o meno conosciuto della storia di Amazon. Houdini era il nome in codice di Prime Now, il servizio lanciato nel dicembre 2014 che prevedeva una consegna nell’arco di non più di due ore”.

Seattle, lo avete capito, non si smentisce mai. Nulla rimane al suo posto, tutto si muove a una velocità impressionante e un’inquietudine, che risale agli anni Sessanta, sembra caratterizzarne il DNA più del resto, come quando fu inaugurato il Seattle Center. Nel 1962, infatti, venne organizzata l’Esposizione Universale, appuntamento imprescindibile per mostrarsi al mondo e spezzare la continuità con il passato. La manifestazione ebbe luogo tra il 21 aprile e il 21 ottobre e significò un investimento edilizio senza precedenti. Lo Space Needle, di cui accennavamo, faceva parte di questo progetto. Sentite i presupposti da cui muovevano gli organizzatori che, da soli, potrebbero compendiare alla perfezione il nostro racconto: “quando la commissione della Century 21 Exposition mise le basi per l’evento, decise che i temi portanti sarebbero stati due: lo spazio e la scienza. Il motto scelto fu, infatti, ‘Vivere nell’era spaziale'”.

Forse non ci sono parole più efficaci per descrivere l’evoluzione di una città, al fondo, bellissima e contraddittoria; dove il passato lontano trova il proprio compimento solo adesso. Amazon e tutte le aziende che affollano l’economia locale non si sono allontanate di molto da quelle parole d’ordine. Forse, però, anche questa volta ci stiamo sbagliando e tra qualche anno parleremo dell’ennesimo tornante, di un’altra rivoluzione oggi neanche immaginabile. Shawn Smith, saggiamente, consigliava di “vedere cosa porta il giorno”. Prima o poi qualcuno gli risponderà, ne siamo certi.