AUTECHRE, “SIGN” (Warp, 2020)

Nell’anno più infame e complicato del nuovo secolo avevamo bisogno di certezze. E non esiste altro progetto musicale in grado di rimettere tutte le cose a posto. Si può discutere di qualsiasi cosa, anche e soprattutto di Aphex Twin, ma quando si parla di loro chi segue un certo percorso musicale smette di confrontarsi e si torna sorelle e fratelli. Indiscriminatamente.
Gli Autechre sono forse l’ultima certezza, l’ultimo destrutturato retaggio del secolo in cui la maggior parte di noi è nato. Nessuno ha mai avvertito la necessità di rifiutarli o ripudiarli. La loro ricerca musicale ha accompagnato, sospinto, senza mai inseguire in maniera fallace le traiettorie spesso ineffabili e impalpabili di due decenni di musica elettronica (o se preferite “avant”) del nuovo secolo. Un percorso assolutamente personale, a suo modo coerente e organico anche nelle produzioni e nei mix estremamente cervellotici. I due maestri di Rochdale si sono saputi nascondere, ma sono assurti definitivamente al rango di icone, grazie a un’influenza e una rilevanza che si auto-alimenta e si auto-genera ogni volta che l’ennesima nuova label elettronica del momento in qualche modo propone producer, tracce o idee che per forza di cose ricordano in qualcosa gli Autechre. Inevitabile.

Nell’ultimo decennio Rob Brown e Sean Booth hanno fatto tante cose. Hanno regalato a chi avuto la fortuna di vederli dal vivo dei momenti che resteranno scolpiti indelebilmente nella memoria con quelle performance al buio spettrali e annichilenti che hanno trasceso la forma e la sostanza del live e del classico show in una dimensione clubbing. Hanno pubblicato il lavoro più lungo di una discografia ormai trentennale, “Exai” (120 minuti che ancora oggi offrono all’ascolto infinite angolature e prospettive), un’ambiziosa raccolta di cinque segmenti di 50 minuti (“elseq 1-5”), le incredibili e imperscrutabili NTS Session, quattro volumi di viaggioni che a tratti riescono a far rivivere quell’esperienza segnante del live.

Forse per questo, in un anno dove c’era davvero bisogno di uno spiraglio, ci sta che gli Autechre abbiano cercato, a modo loro, di trovare dei percorsi più semplici e “immediati”, dove la parola “immediati” va ovviamente messa tra duecento virgolette. Un percorso a spirale o circolare se pensiamo a quell’“Oversteps” uscito nel 2010 che recuperava scenari IDM vagamente 90s con soluzioni più decifrabili e immediate (con meno virgolette).

“Sign”, per intenderci, è in tutto e per tutto un disco degli Autechre (e non potrebbe essere altrimenti: provate a definire Autechre in due parole), ma è quanto di più vicino a una soundtrack contemporanea potessero elaborare, tra ricerca e nostalgia “ricombinata”. Non mancano le nevrosi disturbanti nei momenti più oscuri e spigolosi (“si00” o “au14”), ma colpiscono subito i break. Synth fragorosi ed armonie elegiache che rendono l’aria più rassicurante respirabile e digressioni atmosferiche quasi “chill” out (“F7”, “esc desc”, “th red a”). Offre momenti da ascolto quasi rilassato e catartico.

Un potentissimo sedativo lungo un’ora che ci prende per mano nel primo lunghissimo autunno del nuovo decennio.

84/100