Alva Noto si è inoltrato nella foresta dei Cure

Quando ho iniziato ad ascoltare la musica in maniera veramente seria, “A Forest” dei Cure era già uscita da alcuni anni. Per cui per me era immutabile e già esistente da sempre. Tutto quello pubblicato prima del mio interessarmi allo scorrere del tempo musicale in real time, seguendo le uscite in corso e ascoltandole in radio, per me era infatti come i graffiti nelle grotte di Altamira, e cioè una cosa che c’era già al mio arrivo nel mondo: che una canzone fosse stata scritta due anni prima oppure cento non faceva differenza, esisteva già.
Si trattava di canzoni ascoltate distrattamente ma che sapevo già che c’erano, tipo “Sultans Of Swings” dei Dire Straits o “Smoke On The Water” dei Deep Purple. Nella mia testa erano già dei traditional, al pari un “Bella Ciao”, se capite cosa intendo.

“A Forest” era in quel novero di pezzi, e poi guarda caso – tempo dopo e per altre ragioni – successe pure che i Cure diventarono il mio gruppo preferito e questo ha acuito quella sensazione di “A Forest” come una canzone granitica ed immutabile, da inviare in una sonda in giro per l’universo a dimostrare cosa suonano gli umani, un brano-zero, quello che rappresenta dei codici binari basilari per la musica (e per la vita). Una sorta di dna.

Ecco quindi che ascoltare oggi la versione che ha fatto Alva Noto di questo brano (che quest’anno compie 40 anni, tra l’altro) mi ha infuso una sensazione strana, però positiva: si può evolvere, si può andare oltre, si può cambiare.

Alva Noto ha cambiato “A Forest” in questa sua rappresentazione glaciale ma in fondo non ha fatto nulla, perché “A Forest” cambia ma fa riemergere sempre se stessa.

Come l’uomo, che non è più quello di Neanderthal, ma è sempre l’uomo.

(Paolo Bardelli)