HILARY WOODS, “Birthmarks” (Sacred Bones, 2020)


Se “Colt” era un “guardare fuori”, il secondo passo dell’irlandese Hilary Woods è un tuffo verso l’interno. “Birthmarks” è stato registrato in un momento davvero unico nella vita di una donna; l’attesa di un figlio. Cambiamento del corpo, responsabilità, paure, gioie e tutta una serie di sentimenti che si celano per affrontare giorno dopo giorno il punto di non ritorno. Una vera fase di transizione, che a detta di molti è la cosa più naturale del mondo. Ma un artista vero ha bisogno di sperimentare sulla propria pelle l’incertezza, di rappresentare questa stasi di vita abbozzando sullo spartito, su tela, su foglio, su voce, su marmo, su creta quello che sta succedendo. Così ecco che spariscono i momenti cinematografici, sparisce il dolce stil novo del dream-pop più etereo, sparisce il raffinato fluttuare di un pianoforte che rassicura e lenisce le ferite dell’amore.

C’è qualcosa di più a cui dar conto, ora. C’è una vita che ancora non sa cosa vuol dire essere, fuori. Dentro è diverso, ovvio, c’è la mamma che lo amerà per sempre, ma che ha paura di non essere all’altezza. Tutto il rumore di fondo può essere annullato dall’amore? I violini di “Through the Dark, Love” sembrano esserne convinti, i frastuoni ammaestrati di “Mud and Stones” ne sono la prova tangibile mentre i synth schiaccianti di “Cleansing Ritual” vengono spazzati via in chiusura da una “There is No Moon” che altro non è che un battito continuo e costante, pieno di vita. Per scrivere un disco del genere non ci vuole solo coraggio, del quale le madri ne sono sempre fornite. Ci vuole anche capacità di ammettere i propri limiti di essere umano. Ammettere di avere paura. Ammettere di non avere risposte. Ammettere di abbandonarsi all’amore.

75/100