GRIMES, “Miss Anthropocene” (4AD, 2020)

La cifra “2020”, in un’era in cui Internet ha plasmato questa esigenza di classificare dischi e artisti nel tempo, definire chi fa la storia e chi no, tenersi attenti sull’evoluzione di suoni e linguaggi, non è una cifra da nulla. Rappresenta l’inizio di un nuovo decennio di musica, con tutte le aspettative che ne conseguono. In questa percezione quello di Grimes, all’anagrafe Claire Boucher, è ancora un nome chiacchierato e di primo piano: e non stupisce essendo lei stessa una sorta di icona, di esempio-chiave quando si prova a descrivere una generazione che fonda il proprio sapere davanti a un monitor molto più che davanti ai libri, una cultura che spesso è in larga parte cultura pop costruita assorbendo come spugne l’universo di conoscenze che il web ci mette a disposizione.

Lo scarto rispetto alla media è che Claire è riuscita in maniera molto furba a convogliare questo immane puzzle di spotlights, flash, immagini, mode, suoni e stimoli quotidiani di ogni sorta in un personaggio, e a declinare tutto nei propri video, nel proprio look, nei propri post e nella propria musica, a seconda di ciò che vuole di volta in volta comunicare. E in questo nuovo progetto il bagaglio di riferimenti è ancora più coerente del solito: “Miss Anthropocene”, gioco di parole tra le parole misantropo e Antropocene, ovvero l’attuale era geologica in cui le azioni umane hanno un drastico effetto sulla Terra, è il fulcro intorno a cui ruota la figura di Grimes al giro di boa di questo nuovo decennio. In pratica: i cambiamenti climatici visti in un’ottica misantropa, legati a filo doppio con un immaginario fantascientifico che ha ben poco del romanticismo di chi sognava traversate nella galassia e una società in cui umani e robot convivono; al contrario, traendo facile ispirazione dalla sua relazione con lo scienziato Elon Musk, Claire ipotizza il lasciare la Terra come unica via di fuga rimasta ad un’umanità che ha prosciugato le risorse del proprio pianeta, e immagina società distopiche sulla base del suo dichiarato interesse per le AI (Artificial Intelligence) in cui queste ultime regolano una società di esseri umani ad esse asservite, un mondo di tenebre dove creature mutanti come la piccola WarNymph, recente emanazione Instagram dell’artista canadese, sembrano abitanti ideali. Questa visione di fine ineluttabile letta in chiave leggera e divertita, l’accettazione di un destino di estinzione che naturalmente si compie, la celebrazione della distruzione: questa è Miss Anthropocene. Rispettivamente a questo tema ogni altro input che costella questo monumentale e certosino lavoro di promozione va di pari passo, che si tratti del proprio ologramma sul palco dei Game Awards o dei consueti riferimenti alla cultura otaku dei suoi ultimi video (dal Third Impact di Neon Genesis Evangelion all’apocalittico finale di Akira).

Tutto sapientemente collegato insomma, una strategia di marketing impeccabile che neanche i pessimi rapporti maturati nel mentre con 4AD e i conseguenti ritardi nella pubblicazione dell’album hanno scalfito. Però alla fine di tutto stiamo parlando appunto di questo: di un album. Ed è proprio qui, al cuore del prpgetto Miss Anthropocene, che tutta la coerenza dell’operazione si sgretola clamorosamente. Non nei testi, in cui il tema dell’estinzione ricorre anzi in maniera più o meno esplicita e costante, ma nella qualità delle canzoni e nella freschezza del suono. Il precedente “Art Angels” non era un disco rivoluzionario ma faceva dell’eterogeneità delle singole tracce un punto di forza rivelando un’artista versatile che aveva finalmente i mezzi tecnici per aprirsi a ventaglio, mettere in campo le proprie molteplici influenze e imporsi come pop star moderna e trasversale. Qui invece lo stesso melting pot di generi, seppur ripresentato in una formula più cupa, non solo non è altrettanto ispirato ma nemmeno davvero necessario a fronte del concept molto definito che accompagna: si sente al contrario la mancanza di un filo conduttore che leghi una traccia all’altra, si sente il bisogno di una direzione, di un passo avanti, di un tentativo di sperimentazione che vada oltre il citare ancora questo o quello e conferisca una qualche profondità – non troppa (in fondo l’intento dichiarato di Grimes è “rendere il cambiamento climatico divertente”), ma perlomeno sufficiente a lasciare il segno.

Invece, tolta l’epica spaziale della programmatica “So Heavy I Fell Through The Earth”, le avventurose progressioni vocali di “IDORU” e l’azzardato incastro tra rave e sonorità mediorentali di “4ÆM”, il resto della tracklist è tutto un rotolarsi nel risaputo nascondendosi dietro il dito del proprio personaggio: dai giri di accordi Lene Marlin di “Delete Forever” ai crossover divertenti ma un po’ annacquati tra synthpop e industrial di “We Appreciate Power”, passando per l’electro da manuale di “Violence” e l’autocitazionismo innocuo di “Darkseid”, la figura di Grimes come producer si autosvaluta rispetto ai tempi in cui la povertà di mezzi contrapposta alle sue ambizioni pop la forzava a dare il meglio elaborando un suono che aveva contribuito in maniera forte a caratterizzare quei primi anni 10. Adesso il desiderio di ritrovare un’identità sembra essere tutt’altro che prioritario, e in uno scenario che vede da un lato l’alt-pop di giovani star come Billie Eilish a dominare le classifiche di Billboard e dall’altro artiste che guardano sempre più avanti come FKA twigs, un pacchetto ben confezionato non basta a coprire le lacune di un disco leggero e ascoltabile ma purtroppo non incisivo come era lecito attendersi.

55/100