MAC MILLER, “Circles” (Warner, 2020)

La prima volta in tempo reale che ho vissuto l’esperienza artistica di un qualcuno che era premorto è stato con Brandon Lee ne “Il Corvo”: lo vedevi sul grande schermo in una storia di un eroe dark che tornava dalla morte, e lui era davvero già morto tra il termine delle riprese e quando uscì il film. Agghiacciante. È una sensazione strana: se gli artisti lasciano al mondo la loro arte per sopravvivere alla propria dipartita, beh, il poter assistere o ascoltare o visionare un loro lascito artistico di cui nemmeno loro hanno potuto godere, fa sentire quasi colpevoli nei loro confronti.

Così è per Mac Miller: “Circles” è il primo album postumo dopo la scomparsa del rapper di Pittsburgh, ed è talmente bello che si è davvero dispiaciuti che Miller non possa riscuotere l’affetto che fa nascere questo disco negli ascoltatori. Il lavoro del produttore Jon Brion, che ha finito i brani dopo essere stato coinvolto nella prima produzione con Miller, è perfetto: pur non potendo conoscere in che stadio si trovassero le canzoni, e quindi che tipo di intervento – se massiccio o di fioretto – abbia compiuto Brion, di certo il risultato è coerente e amplifica la forza del cantato svogliato, quasi rilassato, di Mac Miller. È stata una produzione di sottrazione, aggiungendo solo gli elementi funzionali alle melodie, attribuendo i (pochi) colori a ciascun brano per farne emergere l’anima.

Non è un disco di rap: Mac Miller lo aveva pensato come speculare a “Swimming” (2018), più pop, più raffinato. E così è, anzi si traveste di più influenze che gli conferiscono un alone trasversale: l’iniziale “Circles” ricorda al sottoscritto la leggerezza di “Walk on the Wild Side” di Lou Reed, gli andamenti che strizzano l’occhiolino di “I Can See” e “Hand Me Donws” rimandano invece a un certo pop dal sapore jazzy, e tutto lo stile vocale di Miller potrebbe ricordare l’indolenza di Mr. E degli Eels.

Come gli Eels, tra l’altro, Mac Miller rimane in equilibrio tra depressione e liberazione, tra dannazione e salvezza. “Everybody’s gotta live / And everybody’s gonna die / Everybody just wanna have a good, good time / I think you know the reason why”, canta in “Everybody” e ci riporta alle semplici verità della vita:  tutti vogliono divertirsi perché sanno, prima o poi, di dover morire. Che poi non è la questione alla Troisi di segnarcelo o meno, il fatto è che Mac ce lo  dice con una tale leggerezza che gli crediamo.

80/100

(Paolo Bardelli)