HOLY GHOST!, “Work” (West End Records, 2019)

Holy Ghost! è un nome che può dire molto o poco, a seconda di cosa avete fatto in questi ultimi dieci/dodici anni. È di sicuro un nome che, per via di quel punto esclamativo, m’imbarazza un filo ogni volta che lo scrivo. E sento sempre l’esigenza di specificare che quell’esclamativo è opera loro, che non è roba mia, e via così. Ma c’è stato più di un momento in cui il loro esclamativo copyrighted e il mio d’entusiasmo sono stati tutt’uno.  Ad esempio quando, dopo la prima vera ondata dei successi DFA Records, se ne uscirono con “Hold On“. Era il 2007, gli Holy Ghost! non erano delle prime linee ma si scaldavano per entrare in partita. “Hold On” è tutto un riscaldamento, infatti. È una macchina ritmica che macina, avanza, ricopre.

Fin da lì il duo ha rappresentato la faccia più disco e meno punk della DFA. Ovviamente meno spigolosi dei Rapture e meno ortodossi dei primi Chk Chk Chk. Nel  progredire delle loro pubblicazioni il loro cocktail è andato codificandosi con più dita di New Order che di Talking Heads. Il doppio del primo ingrediente sul secondo, direi, così a occhio. Un momento saliente è stato quello della prima vera raccolta (era  il 2011) che coincise con questo video bizzarro e carino interpretato dai padri reali dei due a vestire, appunto, i panni dei figli. Il pezzo era  “Wait & See“, una roba decisamente catchy, newyorchese quanto bastava, opera di due giovani che facevano i grandi. Due giovani che, bene o male, sapevano la storia di quei marciapiedi, di quelle casse che rimbombavano dai vicoli (nella realtà, mica nei telefilm e basta), di quegli storici locali e di quella cosa così spensierata e così struggente insieme che è la discomusic. E nel gioco di specchi del video, a rappresentare tutto questo, i due signori attempatelli per quanto giovanili erano papà Millhiser e papà Frankel. I quali, verrebbe da dire, di quella roba avranno raccontato e trasmesso qualcosa ai figlioli.

Quello fuori il 21 giugno di quest’anno è il terzo album (“Dynamics” era uscito nel 2013 e l’ep “Crime Cutz” nel 2016). È un lavoro che segna la fuoriuscita dalla DFA di Murphy e questo ha alcuni significati profondi. Certo, non c’è una rivoluzione nel suono e nella scrittura. Diciamo che la connotazione disco funk altamente melodica c’è oggi come c’era in questi anni trascorsi. Ma è l’etichetta di approdo che rende importante questo disco. “Work”, come atto quasi politico esce infatti per la storica West End Records dello scomparso Mel Cheren e legata al nome di Larry Levan. Parliamo dell’etichetta pionieristica della disco che ha pubblicato i lavori di Loose Joints e Taana Gardner e ha rappresentato l’essenza di quel clima culturale e sonoro della New York di fine settanta e inizio ottanta. Una cultura e una storia, quella dell’etichetta, intrecciata con temi seri e dirompenti come la difesa dei diritti dei gay e la lotta all’AIDS. E questo passaggio profondamente voluto da Millhiser e Frankel segna una riappropriazione anche culturale e storica di un materiale che i due ormai hanno certificato di conoscere e padroneggiare più che bene.

Dunque, senza essere solo una spremuta di nostalgie, “Work” è un disco che accorcia una distanza temporale e mette in comunicazione mondi lontani “solo” quarant’anni. Dentro trovano spazio anche il pop dilatato e melodico di “Heaven Knows What” e il viaggio french di “Nicky Buckingham” (echi di “Random Access Memory” e un giretto killer). La patina di polvere è sottile, nel senso che questa ulteriore riconnessione storica non compromette il lato contemporaneo: a consueto corredo ci sono i cori e gli inserti di archi che fanno molto Kelley Polar. Come nel sopracitato video, s’incontrano le generazioni, la musica da ballo si fa storia e cultura, così come i marciapiedi raccontano i passi e le loro traiettorie. E i pensieri che magari in quel ballare sembrano pochi, lo sembrano solo perché a metterli tutti in fila sarebbero troppi.

75/100

(Marco Bachini)