AFA n. 10: Ifriqiyya Electrique, “Laylet El Booree” (Glitterbeat, 2019)

Per quanto mi riguarda, era uno dei dischi più attesi dell’anno. Anche perché la sua “presentazione” è stata aggiornata e sponsorizzata nel corso dei mesi con la diffusione cadenzata di materiale contenuto nel disco, fino alla pubblicazione a inizio aprile 2019 ovviamente per la Glitterbeat, che era già stata partner e sponsoring in occasione del primo album “Ruwahine” (2017).

Del resto “Ruwahine” mi aveva ampiamente appagato, era un lavoro all’avanguardia e che metteva assieme la tradizione della comunità banga e il loro canto e riti cerimoniali ipnotici e senza tempo con il rock alternative e quello che si potrebbe definite come brutalismo post-industriale. Praticamente una vera e propria bomba, un progetto che più che multurale guarda al futuro prossimo in una maniera che può apparire, stando alle sonorità dell’album, angosciante, ma che in questo processo di “transumanza” del genere umano ab origine ad oggi, compie un rito esorcistico. Come il serpente che cambia pelle, il passaggio non è indolore e si compie così con un rito che è uno stato di trance indotto e che può apparire spaventoso.

L’idea è di Francois Cambuzat e Gianna Greco, già Putan Club e collaboratori di Lydia Lunch (il primo è cugino di Amaury Cambuzat, Ulan Bator). Il duo ha attraversato il Mare Mediterraneo ed è sbarcato in quella che una vola era Cartagine e oggi è la Tunisia, una regione che è giustamente vista da qui secondo un’ottica esotica ma che ci rimanda a storie che ci toccano da vicino e che affondano sin nella mitologia dei tempi antichi.

Così “Laylet el Booree” (ovvero “La notte della follia”) rimanda dal titolo a antichi raduni e riti annuali dell’adorazione secondo la tradizione Banga: è la notte in cui gli spiriti prendono possesso dei corpi. Un rituale selvaggio e che si compie in questo album in una frenesia, elettricità, sangue e sudore e spiritualità sensoriale travolgente.

Il disco è stato registrato a Tozeur (Djereid, Tunisia) e in Francia e alla formazione (che comprende anche Yahya Chouchen e Tarek Soltan) si è aggiunto un nuovo componente, Fatma Chebbi, che con la sua voce e il suo suono delle percussioni ha aggiunto un carattere ancora più ossessivo al suono.

I riferimenti vanno ricercati tanto nella tradizione banga quanto nelle pubblicazioni precedenti di Cambuzat e altri musicisti che combinavano una attitudine selvaggia e punk a uno spiritualismo profondo di base, penso ad esempio a Jeffrey Lee Pierce. Sostituite solo la matrice blues a quella della tradizione banga, se volete, ma in fondo non siamo poi così lontani, le radici sono sempre quelle. Meno criptico forse rispetto al disco d’esordio, in “Laylet el Booree” la trance più che essere indotta da una assenza di forme prestabilite, viene proprio evocata. Come se fosse un passo in avanti ulteriore, c’è una mirata consapevolezza specifica nel calarsi in questo stato e non ci resta che accogliere, anche dolorosamente, arrendendoci alla bellezza e alla forza di questo disco.

83/100

Emiliano D’Aniello