[Cannes chiama Kalporz] Diario 24 maggio 2019

Il Festival volge al termine, parte degli accrediti stampa e quasi tutti quelli del marché hanno ripreso la via delle rispettive magioni. Il cielo è sempre plumbeo, unica vera costante di questa settantaduesima edizione. Ma il concorso è tutt’altro che finito, e ha proposto una tripletta su cui si è concentrata l’attenzione mediatica. In mattinata ho recuperato infatti Matthias & Maxime, il nuovo lavoro dell’ex enfant prodige canadese Xavier Dolan, uno che a trent’anni appena compiuti ha già diretto otto lungometraggi. Il ritorno a Cannes del figliol prodigo dopo lo smacco del suo primo e finora unico film anglofono (The Death and Life of John F. Donovan, così disastroso al botteghino e nei rapporti con la critica da essere stato riposto in un cassetto dalla Lucky Red, che ne detiene i diritti di sfruttamento per l’Italia) si risolve in un nulla di fatto, o poco più. Non va infatti molto lontano questa storia esile di due amici di lunghissima data – fin dalle elementari – che solo per essersi scambiati un bacetto per fare un favore a un’amica che sta girando un film sperimentale a bassissimo costo mettono in dubbio la loro sessualità e il loro rapporto. Un respiro asfittico e asmatico salvato solo parzialmente dalla bella regia di Dolan, che dimostra il proprio talento ma anche di non possedere ancora la maturità necessaria per costruire un immaginario degno e denso di significato.

Nel pomeriggio, quando in Italia le prime proiezioni in sala erano già partite, è stata poi la volta di Marco Bellocchio e del suo Il traditore, racconto dettagliato della vita da pentito di Tommaso Buscetta, detto Masino dagli amici. Bellocchio, forse l’ultimo grande maestro rimasto del cinema italiano dell’epoca d’oro, firma un’opera potentissima, moderna, in grado di giocare sia col mito del gangster movie all’americana sia con la ricostruzione storica e con il rigore di una messa in scena dinamica e allo stesso tempo in grado di trovare il modo per muoversi per sottrazione. Strepitoso Pierfrancesco Favino nel ruolo principale, ma immenso Luigi Lo Cascio nella parte di Totuccio Contorno, a sua volta collaboratore di giustizia. Un film preziosissimo, uno dei migliori parti italiani degli anni Duemila. Probabilmente non vincerà, ma non è certo quello che conta. È in sala, quindi non perdetelo!

A chiudere la giornata è poi arrivato il fluviale Mektoub, My Love: Intermezzo, seguito che Abdellatif Kechiche ha dato allo splendido Mektoub My Love: Canto Uno, che venne presentato a Venezia nel 2017. Il regista già Palma d’Oro con La vita di Adele filma un’opera spiazzante, che di fatto ha innervosito e un po’ disgustato buona parte degli accrediti stampa. E questa è sempre un’ottima notizia. Infatti il film è, come dice il titolo, un intermezzo, un punto di connessione tra il primo capitolo e l’atteso Canto Due (che non si sa quando arriverà). Tre ore e mezza di cui tre interamente ambientate in una discoteca di Sète, località turistica e marittima dell’Occitania, durante una notte. Danze sfrenate, amori, cunnilingus nei bagni, sfregamenti, desideri inappagati, in un momento di vita-senza-vita sublime, canto che porta alle estreme conseguenze il discorso sul cinema come spazio della vita, sull’inerzia dello sguardo, sul desiderio formato negli occhi e nelle orecchie. Straordinario, ma di certo non per tutti i gusti.

(Raffaele Meale)