WILLIAM TYLER, “Goes West” (Merge Records, 2019)

Prosegue, dopo LP “Modern Country” (2016), l’epopea solista di William Tyler tra le strade e i deserti degli Stati Uniti avviata già nel secondo album “Impossible Truth” (2013). Il compositore, ex chitarrista dei Silver Jews e dei Lambchop, si affida a una partitura esclusivamente strumentale che mette in sovrimpressione il resoconto di viaggio all’esplorazione intimistica del panorama percorso. Una brillante intelaiatura folk, con esplicito richiamo alle radici, raccorda le dieci tappe contenute in “Goes West” muovendo, abbandonata da Tyler la nativa Nashville nel Tennessee, in direzione dell’ovest.

Alla stesura dei brani un ruolo decisivo, in seguito all’elezione di Trump, ha giocato il trasferimento a Los Angeles. Il cambiamento sociale e politico è stato il vettore che ha innescato la scelta di raccogliere l’eredità country come atto d’amore per la tradizione delle origini strizzando l’occhio, com’è naturale, a John Fahey. Le collaborazioni con Meg Duffy (chitarra elettrica), Bradley Cook (che ha suonato diversi strumenti, dal basso al mandolino) e con Bill Frisell (in Our Lady of the Desert) offrono un campionario di suoni che supportano e arricchiscono le tecniche di fingerpicking adoperate con la chitarra acustica, mentre l’artwork di copertina cela l’omaggio a Pink Moon di Nick Drake. Quello che William Tyler consegna è un album corale raffinato che trova, facendo a meno delle contaminazioni elettroniche di “Modern Country”, nell’elemento evocativo e negli sprazzi lirici il punto di appoggio per la scoperta interiore dello scenario americano.

Il quarto disco in studio, annunciato dall’uscita del singolo “Call me when I’m breathing again”, segue alcuni tentavi andati in direzione di collaborazioni esterne (come quella coi Six Organs of Admittance) e rilancia, a
distanza di quasi tre anni dal predecessore, la carriera solista del compositore statunitense. Nel complesso se
siamo di fronte a un lavoro armonico, in grado di spingere, senza l’appoggio dei testi, l’immaginazione tra paesaggi desolati, il disco non raggiunge l’originalità necessaria per spiccare nell’affollato genere acustic-folk, pur restando un tassello godibile segnato da una non indifferente abilità e luminosità di scrittura.

(Eulalia Cambria)

70/100