FIDLAR, “Almost Free” (Mom+Pop, 2019)

I Fidlar mi piacciono perché si ascoltano facile. Hanno una melodia sempre accattivante e paracula, basata su uno scheletro di powerchords e pentatoniche padroneggiate con maestria, e così ben arrangiate che per quanto le fai girare restano sempre le stesse però sempre funzionano.

L’esordio era stato al fulmicotone, con uno dei migliori album del decennio (sissignori!): una freschezza compositiva unita a un’energia che butta giù i muri. Poi la battuta d’arresto e le scelte non proprio azzeccate del secondo album, a metà fra soluzioni ripetitive e un po’ annoiate e ricerche espressive un po’ incerte e poco convinte.

Ecco perciò quasi quattro anni di silenzio, per vederli ritornare con la loro solita aria da skaters bohémiens, ubriachi, caotici e perennemente sopra le righe. Dai singoli diffusi in anteprima si poteva intuire che qualcosa però era cambiato, e che i quattro losangelini hanno speso questi anni a cercare di comprendere quale potesse essere la giusta forma sonora per contenere, senza reprimerla, un’esuberanza così esplosiva unita ad una capacità melodica non comune. Senza dubbio il tour con gli Hives deve aver dato loro molte ispirazioni, ma deve anche averli fatti riflettere in termini di personalità artistica.

Si, perché sembra che i quattro ragazzotti abbiano capito che, insomma, con il talento ci si possono fare dei soldi, e la cosa non è che faccia poi così schifo. Per cui si sono ripuliti un po’, hanno cercato di rimanere più sobri, di togliersi un po’ di dosso quell’aria da “I drink cheap beer, so what, fuck you”, e di provare a raffinarsi un pochino. Ma soprattutto hanno cercato di guardarsi intorno, di dare più importanza al mondo e alle relazioni che si possono instaurare con questo oggetto misterioso, e che sembrano poter andare ben al di là di un semplice nichilismo tardo-adolescenziale fatto di sbornie, notti brave e hangover. Insomma, i quattro ragazzotti un po’ ribelli e un po’ disadattati sembra che in questi anni di pausa abbiano scoperto il mondo che li circondava, e che abbiano tentato di raccogliere appunti, di prendere nota per poi, al momento opportuno, tornare a casa e provare a riordinare le idee.

Il risultato si nota fin dall’incipit. “Get of my rock” è ben lontana dall’adrenalina punk e sembra quasi un crossover fra Beastie Boys e Black Keys, il tutto però con un groove differente e con sonorità più curate, più ricercate, si direbbe quasi più patinate.
“Cant’you see” sembra proprio quella canzone di quella pubblicità in cui c’è quel tizio ripreso di spalle che entra in quel locale pieno di gente, arriva al bancone, ordina quel drink li e quando si volta verso la videocamera tutti quelli intorno a lui vengono sommersi dalla coolness… Ah non l’hanno ancora fatta una pubblicità con questo pezzo sotto? Peccato!
Perché in quanto a tiro, signori, Zac e soci non sono secondi a nessuno: “Be Myself” e la strumentale “Almost Free” sono hit trascinanti che starebbero benissimo in qualsiasi compilation di qualsiasi dj di qualsiasi serata di qualsiasi club di qualsiasi città…
Un po’ troppo qualsiasi, forse, è vero. Ed è una cosa che a tratti si nota.

L’album è decisamente ben prodotto, spicca per gli arrangiamenti sopra le righe e per il coraggio di proporre un linguaggio e un’intenzione artistica così sfacciatamente dichiarati. Solo che poi si affloscia un po’, e soprattutto nella seconda parte le idee diventano un po’ confuse, per quanto ben confezionate. La sensazione è che i quattro californiani abbiano voluto avvicinarsi ad un sound tipicamente europeo: “Scam Likely” sembra un brano brit-pop che avrebbe potuto benissimo cantare Damon Albarn negli anni ’90, e lo stesso si può dire per brani come “Kick”, con quel riff reiterato e strisciato e quell’andazzo un po’ drogato e spento ma incredibilmente catchy.

Alla resa dei conti Almost Free è una scommessa, su cui è molto difficile esprimere un giudizio. Di certo non è un capolavoro, e su questo dobbiamo essere chiari. Ma a lungo andare potrebbe rivelarsi una bombetta, di quelle che si fanno sentire a scoppio ritardato, e che potrebbe segnare un nuovo passo nell’evoluzione di una band che a suon di irruenza e di sfacciataggine vuole provare a scalare la classifica. Oppure semplicemente scopriremo che si è trattato di un grandissimo e clamoroso passo falso, che rischia di compromettere quattro anni di lavoro e di ricerca. Tutto questo solo il tempo potrà dirlo.
Per ora non resta che registrare il coraggio della band nel mettere insieme un album così spiazzante. Ed è una cosa che al di là di tutto va riconosciuta e apprezzata: Fuck It Dog Life Is Risk.

70/100

Gianpaolo Cherchi