THE 1975, “A Brief Inquiry Into Online Relationships” (Polydor, 2018)

Ma al di là dei vari orpelli, qual è il senso dei 1975?  Costruzioni pop velleitariamente atemporali ma in realtà fatte su misura per la generazione che va in giro con le casse bluetooth? Questo, più o meno, potrebbe essere un marchio, una ragione della band di Matty Healy. Teen spirit con qualche venatura  nostalgica ma anche teen spirit tout court, insomma. Cose che peraltro non sono in contraddizione, almeno finché uno riesce a non farsele scoppiare in mano. Guardi i quattro inglesi e non li vedi mica così lontani dai Prefab Sprout, per dire. Una roba che a coloro che nel 1975 ci son nati, un po’ gli scalda il cuore. E li invita ad essere indulgenti, a dargli più di una chance, a tollerare le pose maledette perché in fondo, in fondo… Sì, c’è qualcosa laggiù (o lassù) in fondo che ce li rende in qualche misura digeribili, per non dire addirittura vicini. Poi però, appena l’equilibrio si compromette (e non è facile dire con esattezza quando e dove si comprometta) si entra in un mondo fatto di Imagine Dragons e, no, quello non è né un contesto vicino, né addomesticabile.

Disorientano perché ci sembrano i Curiosity Killed The Cat ma con l’autotune. Hanno sagome familiari ma poi parlano un’altra lingua. Fatto sta che “A Brief Inquiry Into Online Relationships” è un peccato lasciarlo lì dov’è senza dargli un ascolto. C’è dentro un approccio totale alla musica. Totale nel senso che è fatto da gente (Healy e George Daniel) che, almeno formalmente, sa maneggiare la musica bianca (e nera) di ieri, di oggi e probabilmente di un domani piuttosto prossimo. Concettualmente e a livello di testi è un dipinto dei nostri tempi, forse anche troppo legato all’attualità (come quando si declama Rest In Peace Lil Peep). A volte l’obiettivo non viene centrato non perché i 1975 si fermino prima ma semmai perché arrivano lunghi. Un’ombra di more is less s’insinua anche tra i solchi più estroversi ed intensi. Non so come dirlo ma, al netto dei problemi, Matty Healy è già un’autentica rockstar così, anche senza tutta la storia del suo rapporto con l’eroina.

Pur stando su un diverso sentiero si intravvede la scriteriata ridondanza di Kanye West a braccetto con Bon Iver, per intenderci. In “Give Yourself A Try” con Healy e la sua chioma rosso fuoco s’insegue un’estetica punk senza, per fortuna, centrarla. Nella marziale “Love It If We Made It”, siamo tra i Picnic At The Whitehouse di “We Need Protection” e il Billy Joel di “We Didn’t Start The Fire”. C’è “How To Draw/Petrichor” che è pop destrutturato dalle parti di “Idioteque” (con le debite distinzioni). “Sincerity Is Scary” è una personale lettura dell’r’n’b contemporaneo, ottima prima del ritornello. Tutto il disco è musica da doposcuola ma sembra più Deejay Television che un canale Youtube. E, non so se si capisce ma vuole essere un complimento.  A volte tutta questa cosa è irritante perché sembra di vedere la roba dei ristoranti d’America, tipo “A tavola con Guy”. Cosa cazzo ci devi aggiungere un tegame di cheddar se hai già fatto una pasta al ragù?

Poi, alcune volte, quel medesimo meccanismo riesce ad essere meno distanziante. Ed è quasi bella la rincorsa spasmodica che non afferra mai saldamente quel che poi sarebbe lì a portata di mano. Vi si coglie la sincera fragilità di fondo. Tangibile non tanto nelle comode ballate emotive ma, come spesso succede, nel cortocircuito ansioso-autoreferenziale che va, a torto o a ragione, a cercare la propria gloria. E comunque anche l’insicurezza di chi cucina in America mi ha sempre colpito parecchio.

68/100

Marco Bachini