MATTHEW DEAR, “Bunny” (Ghostly International, 2018)

Durante il tour del 2013 dei Depeche Mode, se avevi culo poteva capitarti di vedere Matthew Dear come opening act. Se ne avevi un po’ meno, i Chvrches. Ed erano comunque i Chvrches del primo disco, quindi neanche malaccio, oggettivamente. I tre scozzesi furono assegnati alla data di Milano e il nostro andò a Roma. Poi, beh, lui fu il solito, biancovestito a dire la sua messa nella temperatura importante dell’olimpico. In realtà perfetto a introdurre Gahan con un liveset conciso, chirurgico e sottovalutato. Pezzi da “Beams”, prevalentemente. Qualcuno non alzò neanche lo sguardo sul palco perché tanto quando è ancora giorno chi suonerà mai?

Ma in questi ultimi mesi Matthew Dear non si è dedicato solo a “Bunny”. Si è dato anche a questa mattata di remixare l’ottimo “Little Dark Age” degli MGMT. Nel senso proprio dell’album intero, ecco. Sì, perché poi? L’istinto del remixer massivo? La fascinazione (o la devozione) per il nuovo corso del duo? Fatto sta che quelli a loro volta ricambiano e lui  in questi giorni, come con Gahan, apre le date europee del tour degli MGMT.

Quindi arriviamo a “Bunny”, lavoro eclettico con impressa la matrice di Dear. Blues digitale come da sua tradizione e sapienza da producer che si sposa sempre più con una forma di canzone. La sua forma di canzone. Nel senso che non ci si deve aspettare una formula che declini in modo banale l’elettronica e il pop. Spinge la sua lettura ancora di più sull’amalgama fra il cantautorale e il club, in equilibrio perfetto. È questo equilibrio, più che la singola brillante trovata a fare la forza del disco. Appunto, la coesione e l’indiscutibile (ormai) impronta suppliscono alla mancanza di qualche guizzo glaciale dei suoi. Poi capita questa cosa che “Bunny” esca lo stesso giorno del nuovo “Love Is Magic” di John Grant. Grant che i guizzi li ha e che sostanzialmente è uno che giunge dalle medesime parti partendo da prerogative quasi totalmente opposte: quelle del cantautore che col suo bagaglio entra nel clubbing con credibilità ormai totale. Il viaggio opposto di un Audion (l’alias di Matthew Dear) che da “Suckfish” oggi si sposta fino a “Bunny”.

Insomma, le tracce scivolano bene come il materiale evocato dall’artwork: “Electricity”, per esempio, è del filone di canzoni che rimandano al Bowie di “Scary Monsters”. “Moving Man”, sorprendentemente pare uscita dall’ultimo di Neon Indian. Fa piacere che si cimenti in qualche passaggio un po’ “screamadelico” e che a connettere il tutto ci siano sempre i suoi suoni e la sua voce baritonale. I momenti più bizzarri (ma funzionali) sono le due ospitate di Tegan And Sara: “Horses” è più un collage mentre “Bad Ones” è il vero momento radio friendly di tutta la carriera di Dear. Non male. Mi ricordava qualcosa e c’ho messo un po’ per capire che mi ricordava i Chvrches.

70/100

(Marco Bachini)