“In Utero”, 25 anni dopo

Tre interventi per ricordare che sono esattamente 25 anni che è uscito “In Utero”, l’ultimo album in studio dei Nirvana.

Tutta la gestazione del terzo disco dei Nirvana, che si sarebbe dovuto intitolare “I hate myself and i want to die”, fu una corsa ad ostacoli. Cobain, Novoselic e Grohl arrivarono a registrare “In Utero” con un nemmeno troppo celato scopo comune: evitare in tutti i modi il suono ripulito di “Nevermind”. E se per mesi le pressioni della DGC erano volte a far uscire il disco entro il 1992, solo a inizio 1993 la band si chiuse due settimane in studio con Steve Albini. Paradossalmente il periodo di registrazioni fu incredibilmente corto e la campagna pubblicitaria sobria. Il sound abrasivo di “In Utero” mostrò una band nella piena maturità artistica.
Quando “In Utero” uscì il 21 settembre del 1993 incantò tutti e, per pochi mesi, quel gruppo ci sembrò immortale ed invincibile.

(Francesco Melis)

Di “In Utero” – oggi – mi colpiscono meno gli aspetti musicali, comunque altissimi, quanto piuttosto quello che ha rappresentato quell’album come testamento spirituale di Cobain. In particolare da un punto di vista testuale e soprattutto visivo (il progetto dell’artwork è completamente opera di Cobain, che fece realizzare la copertina al fidato Robert Fisher e la foto del retro a Charles Peterson). E’ come se Kurt, dopo aver dapprima pensato di intitolare l’album in soggettiva personale e ripiegato su se stesso (“I Hate Myself And Want to Die”), nel cambiare titolo avesse cercato per l’ultima volta di trovare un senso a tutto, scandagliando il mistero della vita. Invano. I segni di vita, e cioè l’utero, l’angelo femmina come un manichino con gli organi in vista della copertina, la foto di retro che intitolò “Sex and woman and In Utero and vaginas and birth and death”, non appaiono come vita: sono più elementi inquietanti, crudi, intrisi di morte. Evidentemente perché, nonostante la nascita di Frances Bean, nonostante questo indagare il primo momento della vita, tutto continuava ad essere per lui confuso e senza senso. A tal punto da non poter nominare quella stessa parola (“life”), utilizzata solo una volta in tutto l’album e con significato di morte (la Pennyroyal è un’erba che favorirebbe l’aborto spontaneo):

Sit and drink Pennyroyal Tea
Distill the life that’s inside of me

Di vita ce n’era evidentemente già molto poca allora, dentro di lui.

(Paolo Bardelli)

A distanza di 25 anni dalla pubblicazione di “In Utero” si continua a discutere su quale fosse il valore artistico della produzione discografica dei Nirvana e se il culto di Kurt Cobain abbia una ratio al di là di quella che possiamo considerare come semplice iconografia. Una specie di analisi critica che viene fatta più oggi che al momento dell’uscita del disco e negli anni immediatamente successivi. Si passa da considerazioni di natura tecnica a quelle relative il pubblico di riferimento, fino all’affermazione che in fondo i Nirvana furono sempre e solo un fenomeno commerciale, mica come i gruppi hardcore degli anni ottanta ecc. ecc. Probabilmente questo succede perché sono passati 25 anni, forse perché oggi con internet si ha accesso a un mucchio di roba e allora è più facile fare a pezzi un disco, così come una persona, ci trovi persino le giustificazioni tecniche, basta fare una ricerca e trovare sul web quella che si considera una fonte più o meno autorevole e tac, è fatta. Il punto è che quando parliamo di musica non ci sono verità scritte, conta quello che è il nostro giudizio secondo i nostri gusti e il nostro senso critico individuale. Una volta invece i dischi si ascoltavano e basta. Forse era meglio così, forse no. Quello che posso dire di “In Utero” è che questo album contiene di gran lunga le migliori canzoni scritte da Cobain: qui non parliamo solo di una questione puramente estetica o legata alla tipologia peculiare di suono. A questo punto Kurt era diventato la voce consapevole di una intera generazione, che forse lo aveva capito, forse no. Poi chi lo sa se sia stato questo peso a schiacciarlo. Non me la sento in poche righe di menzionare nessuna canzone in particolare, forse “Pennyroyal Tea” è la canzone migliore di Cobain. È passato veramente tanto tempo che non ha più senso rimpiangere che cosa avrebbe potuto fare poi. Le cose sono andate così, ce ne siamo fatti una ragione, però se vi sono ancora tutte queste persone (anche giovani e giovanissimi) che amano i Nirvana, si innamorano della musica dei Nirvana, così come persone che si sentono in dovere di “critica”, allora evidentemente parliamo di qualche cosa di veramente potente. Il miglior disco dei Nirvana e sinceramente assieme a quello “unplugged”, l’unico che ascolto ancora oggi con grande piacere.

(Emiliano D’Aniello)