CULLEN OMORI, “The Diet” (Sub Pop Records, 2018)

Penso che in fondo tutti i dischi abbiano una storia alle spalle, poi questa può essere più o meno significativa per chi li ascolta, ma troppo spesso giudichiamo (che molto spesso significa “condanniamo”) in maniera sommaria quello che poi tutto sommato costituisce il lavoro in cui un determinato soggetto oppure gruppo mette dentro tutto quello che ha dentro. Oppure almeno ci prova.

“The Diet” è il secondo disco solista di Cullen Omori dopo la fine dell’esperienza degli Smith Westerns e esce dopo un lungo periodo in cui il songwriter di Chicago si era letteralmente ridotto in pezzi. Dopo la pubblicazione di “New Misery” una specie di maledizione sembrava essersi abbattuta su di lui. Da allora è stato tutto un casino: il tour è saltato dopo una serie incredibile di incidenti, ha rotto con il suo manager e poi con la sua ragazza, letteramente sprofondando nell’abuso di droghe e di alcol. Un buco nero dal quale si è tirato fuori faticosamente dopo essersi trasferito a Los Angeles e con l’inizio di una nuova relazione. Poi ecco l’attenzione del producer Taylor Locke e questa rinascita ideale che lo stesso Cullen ci presenta come una vera e propria “dieta”, nel senso proprio classico del termine: la riduzione di assunzione di materiale tossico e la ricerca di un nuovo equilibrio e che poi qui si accompagna anche a una certa revisione per quello che riguarda l’approccio compositivo. Sebbene il sound di base rimanga lo stesso, Cullen ha ricercato di modulare in maniera diverso al solito le sue canzoni proprio per quello che riguarda gli schemi compositivi e la alternanza delle varie parti.

Il risultato per la verità, va detto, non è che sia particolarmente originale e innovativo, ma non ci sono dubbi che “The Diet” sia un bel disco di indie pop-rock con sfumature glamour e che si presti all’ascolto in maniera piacevole e persino ammiccante (vedi ballads come “Happiness Reigns”, “Last Line”, “Queen”…). I riferimenti sono sempre quelli: forme di pop e art-rock derivative dagli anni settanta e riviste secondo un’ottica british pure filtrata con una estetica brit-pop tipo “Quiet Girl” oppure “Bordeline Friends”. Ma in effetti più che citare gruppi più dozzinali tipo Oasis, mi viene di nominare qualche cosa di più ricercato come il sound pop elettrico di un disco bellissimo come “Centaur” de gli Orgone Box (“Millenial Geishas”), mentre la scrittura di “All By Yourself”, “Master Eyes” mi rimandano direttamente a uno dei miei cantautori preferiti degli anni che vanno tra l’ultimo decennio dello scorso millennio e l’inizio degli anni duemila, cioè Kevin Junior (Chamber Strings). Anche lui veniva da Chicago e aveva un animo tanto sensibile quanto tormentato e una storia terribile che lo ha portato a una fine tragica, ma un talento incredibile e che forse non è mai riuscito a esprimere per tutto il suo potenziale.

Mi sono giocato un paio di riferimenti niente male per questo disco, perché effettivamente a ogni ascolto mi piace sempre di più: tutto quello che posso augurare a questo ragazzo è di continuare su questa strada e di mantenersi “in forma”, mentre a chi legge queste poche righe, posso solo suggerire di ascoltare questo disco perché di canzoni come queste qui ce n’è sempre bisogno.

74/100

Emiliano D’Aniello