BRAINBLOODVOLUME No. 10

JUMP, AND YOU WILL FIND OUT HOW TO UNFOLD YOUR WINGS AS YOU FALL.

(Ray Bradbury, 1920-2012)


CRIMEN, “Silent Animals” (Fuzz Club Records, 2018)

Una nuova proposta Made In Italy su Fuzz Club Records che rafforza il legame tra la label e la scena rock psichedelica del nostro paese e spinge sotto i riflettori (diciamo così) una band che pure avendo una lunga storia alle spalle e cominciata in buona sostanza nel 2007, pubblica solo oggi il suo primo LP. Si tratta dei Crimen del trio formato da Simone Grego, Patrizio Strippoli e Giuseppe Trezza. Il disco si intitola “Silent Animals” ed è stato realizzato e prodotto dal gruppo e registrato a Roma presso i Flamingo Recording Studio.

Presentato dalla Fuzz Club con una buona promozione, la pubblicazione del disco potrebbe dare una nuova spinta a questo gruppo che finora ha ottenuto un certo riconoscimento solo per quello che riguarda la scena underground della capitale. I contenuti sono per lo più eterogenei e confermano che l’etichetta in questo momento sta ampliando il suo range di riferimento, ma non sempre e come in questo caso con delle produzioni di grande livello qualitativo o comunque interessanti. “Silent Animals” è un disco in qualche maniera fuori contesto e fuori tempo massimo: per lo più domina una certa componentistica post-hardcore (“Batida”, “From My End”, “Six Weeks”, “Left Behind”, ma anche composizioni flash come “Supermarket”) non inedita nel panorama alternative italiano e che potrebbe prospettare al gruppo una certa positiva accoglienza e audience almeno nel nostro paese. Completano il repertorio l’espressionismo art-pop esasperato con alcune venature noisy-blues di “Flashzz” e un paio di trip disco-kraut come “Six Weeks” e “Hit Mania Death” sinceramente tutti da dimenticare.

Inserire questo disco all’interno di quello che potrebbe essere pure oramai un tardo revival psichedelico è sicuramente fuori luogo, ma il problema più che essere questo sembrerebbe essere proprio una mancata freschezza nel sound del gruppo o comunque una determinata attitudine che può essere bene apprezzata solo da estimatori del genere post-hardcore e da una cultura saldamente legata a esperienze del rock alternative tra gli anni novanta e lo scorso decennio e che poi in molti casi culminavano in esplosioni post-rock che qui sono tuttavia sapientemente tenute a bada e rimodulate in una forma canzone che se non altro ne favorisce la fruizione.


MATT HOLLYWOOD & THE BAD FEELINGS, “Matt Hollywood & The Bad Feelings” (WavePOP Records, 2018)

I rapporti tra Anton Newcombe e Matthew Michael Hollywood non sono mai stati idilliaci: come tutto quello che è stato oggetto del documentario di Ondi Timoner (“Dig!”, 2004), la cosa è stata anche oggetto di spettacolarizzazioni, ma la verità è che i due in fondo hanno sempre avuto dei contrasti. Proprio Ondi Timoner, nel documentario premiato nel 2004 al Sundance Film Festival, descrive Matt come una specie di fratellino dispettoso di Anton: una violenta lite a mano armata tra i due porrà fine alla fase della storia della band raccontata nel documentario e che forse è quella più conosciuta, ma anche quella meno significativa. Ciononostante il contributo di Matt Hollywood alla causa dei Brian Jonestown Massacre è innegabile e costituisce un dato di fatto.

La sua esperienza con il gruppo si è oramai definitivamente conclusa dopo un breve ritorno e non senza qualche dichiarazione rancorosa nei confronti di Anton e altri membri della band, così Matt Hollywood ha deciso di rimettersi di nuovo (vanno menzionati tra gli altri progetti molto interessanti come Rebel Drones e Out Crowd) in gioco come solista. Messa in piedi una nuova band (nel roster anche il chitarrista e frontman dei Warlocks, Bobby Hecksher) è arrivata puntuale anche la prima pubblicazione discografica, un LP eponimo che dovrebbe uscire su WavePOP Records, anche se mi sembra di capire vi siano ancora problemi per quello che riguarda la release sul piano proprio “materiale”.

Di fatto il disco riprende in buona sostanza lo stile tipico di Matt Hollywood, uno scrittore di canzoni brillanti e sicuramente ispirato a una psichedelia di orientamento maggiormente pop rispetto a quella di Anton Newcombe. Nelle otto canzoni del disco trovano così spazio per lo più ballate che ricordano ispirate a una attitudine pop Serge Gainsbourg (“Nobody’s Hurt”, “My Love Will Find You”, “Mosquito Coast”, “No She Won’t”), boogie rock and roll tipo “Ghost Ghost”, venature country rock si dispiegano in pezzi come la accattivante “Horse Drawn Chrysler” e la più evocativa “Evening Star”, mentre sono sicuramente più sperimentali lo spoken-word con un groove quasi Chemical Brothers (ma senza “chimica”) di “Get High And Fuck” oppure la energica traccia introduttiva “Carl Sagen” che apre il disco in una maniera spettacolare e coinvolgente, probabilmente anche illudendo un po’ l’ascoltatore che qui viene un po’ tradito da uno scrittore di canzoni che ci ha regalato sicuramente momenti migliori.


HAMISH KILGOUR, “Finklestein” (Ba Da Bing!, 2018)

Tutto quello che riguarda l’universo del Dunedin Sound per quanto mi riguarda è meritevole di attenzioni. Se poi come in questo caso ci troviamo anche davanti a un disco così originale e pieno di suoni particolari, allora facciamo tombola e ci rendiamo conto che non solo quella scena ha segnato in maniera indelebile la storia della musica pop-rock per gli anni a venire, ma che i grandi protagonisti di quella epoca (in settembre è atteso il prossimo disco dei Chills) continuano a sfornare dei dischi uno più bello dell’altro. Qui parliamo di Hamish Kilgour, fratello di David Kilgour e batterista dei Clean. Da anni trasferitosi a New York City, Hamish ha cominciato tardivamente la sua carriera come solista con un disco pubblicato nel 2014 e di cui “Finklestein” (Ba Da Bing!) costituisce il seguito ideale.

Per la verità dietro al disco c’è un intero concept dai contenuti fantastici: effettivamente la principale fonte di ispirazione e che poi è stata sviluppata nell’album, come ha raccontato lo stesso Kilgour, sarebbe una storia (di cui questo disco costituirebbe la colonna sonora) che ha inventato per suo figlio Taran e che sogna un giorno vedere rappresentata a teatro oppure sul grande schermo. Il sound, chiaramente legato alla matrice Clean e fondato su un uso particolare e centrale della batteria e delle percussioni, è di conseguenza improntato a una certa psichedelia visionaria, ma se questo immaginario potrebbe fare pensare a Marc Bolan oppure a episodi appartenenti alla scena di Canterbury, di questi generi non si ravvisa quel carattere frivolo, ma invece non mancano toni oscuri con un piglio quasi Suicide (“Mary Sunshine”, “Gold”, “No Money Train”, “Silver Dollars”…) e un certo imprinting garage che qua e là ricorda i Velvet Underground più carichi di “White Light/White Heat” (“Opening”, “Strange Angel”…) o Galaxie 500 (“Hayride”).

Elementi kosmische musik e ballate folk senza forma si alternano per tutta la durata di un disco che abbonda di particolari tutti meritevoli di attenzioni e che spuntano fuori all’improvviso e quando meno te l’aspetti in un disco che dimostra non solo la verve e la grande ispirazione di Kilgour, ma che consolida anche la partnership con Gary Olson (Ladybug Transistor) che effettivamente ci mette pure del suo unendo la tradizione dello Dunedin Sound ai momenti più sperimentali della Elephant Six. Che cosa chiedere di più.


PRANA CRAFTER, “Enter The Steam” (Cardinal Fuzz, Eggs In Aspic, Sunrise Ocean Bender Records, 2018)

Segnatevi questo nome, perché questo disco potrebbe effettivamente spianare la strada a una maggiore popolarità per William Sol aka Prana Crafter e se attenzionato e promosso adeguamente da un ambiente come quello del genere psichedelico che in questo momento soprattutto nel continente europeo si sta perdendo dietro schemi ripetitivi e logori e la riproposizione di una estetica che sta praticamente sfociando in quello che si definisce generalmente come indie. La musica di Prana Crafter esula da tutto questo e guarda a una ispirazione di carattere bucolico e pastorale derivante dalla contemplazione della pace e quiete meditativa dei boschi nella penisola dello stato di Washington, USA.

Abbiamo proprio su queste pagine del resto già presentato questo musicista in occasione di altre sue pubblicazioni di carattere più free-form rispetto a questa ultima “Enter The Stream” e in cui la psichedelia folk di William approda a una forma più definita e riconducibile alla forma canzone, contemperando la natura più sperimentale del primitivismo con il sound americana e la psichedelia Pink Floyd degli anni settanta. Il contesto è anche qui quello delle Woodlands, ma gli orizzonti di riferimento si ampliano e la scrittura e il modello compositivo di Neil Young (“Enter The Stream, la ballads “At The Dawn”) incontrano la psichedelia David Gilmour, un chitarrista il cui stile ricorre in alcuni momenti anche di tracce strumentali come “Moon Through Fern Lattice” dominando su arabeschi e sovraincisioni droniche a bassa intensità, oppure in una forma più minimalista e allo stesso tempo elegante in “Mycorrhizal Brainstorm” e nelle costruzioni di “Kosmic Eko”. Ma la verità è che William è un musicista avveduto, le sue composizioni sono per lo più complesse, accostarlo variamente a Gilmour così come allo stesso Neil Young (vedi anche “Old North Wind”) e poi allo stesso tempo a Sir Richard Bishop (“The Spell”), Ben Chasny (“Pillow Moss Absorption”) significa solo riconoscere del resto le sue grandi qualità tecniche e il suo studio e approccio allo strumento e che evidentemente riesce a usare in maniera (appunto) strumentale e in combinazione con strumentazioni sintetiche e di atmosfera, ottenendo giustamente il massimo dei risultati. “Enter The Stream” (peraltro pubblicato su Cardinal Fuzz, Eggs In Aspic, Sunrise Ocean Bender Records) ha le stimmate del classico: piacerà anche agli ascoltatori più fedeli ai grandi della storia del rock e meno interessati alle novità, ma non per questo il disco si può definire come “già sentito”. Al contrario.


ELKHORN, “Lionfish” (Eiderdown Records, 2018)

Bellissima uscita solo su cassetta della Eiderdown Records, che qui ci propone un dischetto degli Elkhorn, il duo folk-rock psichedelico sperimentale composto dai due chitarristi Drew Gardner e Jesse Sheppard. Il disco si intitola “Lionfish” ed è idealmente ispirato a una esperienza vissuta direttamente da Drew che nell’autunno dello scorso anno ha trascorso un periodo in Belize, svolgendo immersioni subacquee fino a ottanta metri sott’acqua. Durante una di queste fu abbagliato dalla bellezza di un pesce lone. Il pesce leone oppure conosciuto anche come pesce scoprione, “Scorpena volante”, “Pterois volitans” ha una bellezza particolare, come addobbato di piume, che poi sarebbero i raggi che ricoprono la sua spiana dorsale e in realtà aculei velenosi, ricorda le raffigurazioni di divinità azteche, ha una sua brillantezza particolare che non passa inosservata nelle profondità degli oceani. Drew fu come ipnotizzato, la sua reazione fu una improvvisa meraviglia, quella che ti spinge a cercare di afferrare la “cosa” che ti ha provocato queste sensazioni, prima che questa possa sfuggirti, una reazione istintiva incontrollabile, la stessa che a volte ti tiene paralizzato per lo spavento.

Il disco, va da sé, costituisce una specie di rievocazione in maniera subliminale, minimalista ma comunque intensa, di queste sensazioni e in una specie di parallelo tra lo spirito di tutta la creazione e la forma di questo pesce, simbolicamente eletto come raffigurazione del mito della creazione, che del resto è un atto d’amore e lo stesso amore, se vogliamo è qualche cosa che uno sembra volere afferrare con le proprie mani, quasi arraffare, ma poi resta la consapevolezza che questo è qualche cosa che non puoi possedere, ma solo sentire. Così ecco questo disco in cui Drew Gardner suona la chitarra elettrica e Jesse suona la chitarra acustica, suddividendo quindi sapientemente i ruoli, e sviluppato in due tracce (“Lion” e “Fish”) dai contenuti sostanzialmente simili. Il disco è un gioco di luci e ombre, dominato da un approccio meditativo e allo stesso tempo forme di psichedelia folk aperte. Lo colloco idealmente tra alcune esperienze nello stile di Ben Chasny oppure vero e proprio primitivismo e un disco bello uscito di recente come “Lacrau”, nato dalla collaborazione tra altri due bravissimi chitarristi come David Grubbs e il portoghese Manuel Mota. Se ci aggiungiamo che la realizzazione è avvenuta sotto effetto di sostanze allucinogene ottenute proprio trattando il veleno estratto dagli aculei del pesce leone, possiamo anche coglierne la radice e la componente visionaria. Elegante, luminoso, invita a guardarsi intorno come dentro se stessi alla ricerca della contemplazione della vera bellezza.


RAMBLE TAMBLE, “Outlaw Overtones” (Eiderdown Records, 2018)

In questi ultimi giorni ho fatto una full-immersion nelle pubblicazioni della Eiderdown Records. La label di Seattle, Washington non è sicuro una delle più influenti, per lo più le sue pubblicazioni sono esclusivamente in formato digitale oppure su cassetta e quindi dedicate solo a chi ha quella voglia di andarsi a cercare determinati suoni particolari e sperimentazioni che vadano al di là di ogni forma predefinita. Questo disco qui è un valido esempio per spiegare di che cosa sto parlando, trattandosi di un lavoro di ricerca, eppure allo stesso tempo istintivo e che affonda chiaramente le sue radici nel profondo della tradizione musicale degli Stati Uniti d’America, ma gli sviluppi sono assolutamente imprevedibili e privi di ogni forma predefinita.

Il progetto Ramble Tamble ruota tutto attorno alla figura di Turner Williams Jr. e quella che è la collaborazione con altri componenti variabili e questo disco “Outlaw Overtones” si può definire idealmente come una specie di viaggio nella contro-cultura americana a partire dagli inizi del secolo scorso: la tradizione del folk rurale e i demoni di Robert Johnson; Jack Kerouac che attraversa gli Stati Uniti da una parte all’altra, percorre la route 66 con lo zaino sulle spalle fino a Santa Monica in California e poi sale su fino a Big Sur dove si ferma contemplare la natura e compie un viaggio spirituale dentro se stesso; le visioni di “The Naked Lunch” di William S. Burroughs, l’urlo di Allen Ginsberg, la psichedelia de gli United States Of America/Joe Byrd and the Field Hippies, il suono elettrico e selvaggio dei Creedence; le menti migliori di intere generazioni distrutte dalla pazzia, affamate, nude e isteriche, esplodere in queste sessioni di musica strumentale per lo più acustica e registrazioni che sono sicuramente a bassa fedeltà ma non per questo qualitativamente non valide e manifesto di un’America che tra le pieghe delle sue contraddizioni, ha evidentemente ancora qualche cosa da dire.


ALIEN MUSTANGS, “Alienation” (Eggs In Aspic/Sound Effect Records, 2018)

Sono sinceramente grato per l’uscita di un disco come questo in questo preciso momento storico della psichedelia rock europea. Uscito lo scorso maggio su cassetta per la Eggs In Aspic e su vinile per la Sound Effect Records, “Alienation” è il primo LP del gruppo rock psichedelico Alien Mustangs. Un nome probabilmente poco conosciuto sulla scena internazionale, forse anche causa la provenienza da quella che si può considerare come la periferia del nostro continente (e che invece produce ottimo materiale, vedi l’ultimo disco de gli CHICKN) e forse anche perché proprone un sound veramente ancora riconducibile alle matrici del genere, questi ragazzi di Salonicco hanno un sound veramente potente e che mescolando l’attitudine rock and roll garage acida MC5 con le ossessioni Spacemen 3 si traduce in un sound che è una ibridazione tra sciamanesimo e space music a bassa intensità e radicalizzioni riverberate in potenti pareti di suono che rilasciano onde sinusoidali continue come una radio-trasmittente.

Subito la prima traccia, “Holy Motors”, mette le cose in chiaro con un drone sound ossessivo Spacemen 3 e recitazioni sciamaniche ispirate a visioni transumaniste e post-apocalittiche; “Going Nowhere” si compone su un ripetuto riff di basso vigoroso e dal sound netto e si compie poi in una profonda accelerazioni finale che riprende il motorik 4/4 kraut-rock fino a una finale esplosione orgasmica; “Forest” è una ballads arpeggiata con qualche venatura blues e che ricorda qualche episodio sognante nello stile dei Magic Castles; “Follow Me” spara forte sull’acceleratore spingendo al limite l’ispirazione Spacemen 3, “Sleep” è un’altra avvolgente ballads che secondo me è suonata veramente bene e mostra anche le skills sul piano qualitativo del gruppo e accompagnata da un delizioso utilizzo dell’organo elettrico, “Lsd” è un blues psichedelico Blue Cheer selvaggio e veramente molto potente: scariche elettrostatiche, rigurgiti juggernaut e idolatria Stooges. In definitiva una prova assolutamente convincente, un disco che definirei finalmente rock psichedelico con le stimmate tipiche del genere: qua sai che cosa ascolti e alla fine sei veramente soddisfatto e non vedi l’ora di farti un altro giro e di ritornare in una dimensione alterata dove puoi ritrovare te stesso e allo stesso tempo ricaricare e dare sfogo a tutta la tua componente adrenalinica.

(Emiliano D’Aniello)