SOPHIE, “Oil Of Every Pearl’s Un-Insides” (Transgressive Records, 2018)

Per esprimere lo spessore di questo lavoro basterebbe considerare che per indicare l’autrice siamo passati dalla perifrasi “il produttore che sta dietro al progetto SOPHIE” a “SOPHIE”. Si è potuto operare, dunque, un sano ribaltamento figura/sfondo. “Oil Of Every Pearl’s Un-Insides” racconta la protagonista attraverso i suoi più autentici tratti, o, se vogliamo, è l’operazione di applicare un volto (dentro e fuori metafora) ad un marchio. La questione è abbastanza attuale considerato quante discussioni teniamo sull’implicito valore dell’artista senza volto, dell’artista collettivo o dell’artista “che ci è” o quello “che ci fa” o che proprio non è. E di solito, sempre a proposito di chi non si palesa (in senso lato), ultimamente lodiamo proprio il non mostrarsi come fosse un “plus”. Mostrarsi, è vero, può essere in certi casi una banalizzazione non necessaria. Quindi, magari è tutto giusto ma la faccenda di SOPHIE sembra dirci che può andare anche diversamente.

Prima di “Oil Of Every Pearl’s Un-Insides”, SOPHIE è appunto quel progetto di Samuel Long sospeso tra PC-music, artiglieria avant, la voce pitchata di QT e buonissime intuizioni melodiche. Il tutto sotto una luce mediamente sbarazzina, va detto. SOPHIE inizialmente è questo: molta plastica (in senso buono, eh, avercene!) e poca carne, intesa come poco “racconto” in prima persona. L’immagine, se proprio ce ne dev’essere una, all’inizio è quella di QT (Hayden Dunham). Ma anche quella è più una sorta di logo, di simbolo, quasi di grazioso contrappeso biondino rispetto ad una struttura volutamente impalpabile. “Product” è la raccolta del 2015 che mette insieme i singoli fin lì prodotti. Il concetto del prodotto è appunto alla base di SOPHIE prima fase. Non ascolti/compri/balli l’artista (che magari, stai a vedere, manco esiste!). Piuttosto ascolti/compri/balli un prodotto che è come l’energy drink di “Hey QT” (con A.G. Cook) o come una qualche “Lemonade”. E allora arrivano collaborazioni altisonanti con Madonna, Vince Staples, Charli XCX, che, dai dai, permettono l’emergere di un tratto personale ormai riconoscibile. Non è poco per ciò che era nato con l’aria impersonale di una lattina con la sua gamma di suoni: dall’apertura allo sgorgare del liquido.

Quel che succede dopo è ancora di più il connotarsi di una persona, di un volto, anche di qualche lacrima. E il volto è rappresentato (nelle immagini ma ancor più nella musica) dagli zigomi alti e dal trucco imponente di quella che oggi è  SOPHIE XEON. SOPHIE, appunto, esiste. La traccia di apertura è quella “It’s Ok To Cry” che raccoglie degnamente (al pari di cose targate Blood Orange) l’eredità di Prince e Michael Jackson quando lasciavano abbassare le luci. La connotazione ultra latex, frammentata, i suoni liquidi e plastici s’imparentano con Arca quanto ad  armamentario e hype ma sono su un piano che dispone di un altro tipo di accessibilità (“Faceshopping”, “Ponyboy”). La “palette” e la competenza espressiva si allargano grazie a brani intensi come la classicista “Is It Cold In The Water?”. Laddove l’atmosfera di Arca è elegantemente opprimente, quella di SOPHIE è, sì, coinvolgente ma anche coerentemente luminosa. L’apice pop è un’esasperazione dell’idea stessa di pop song. Nei quattro minuti di “Immaterial” (ideale ponte con la “Material Girl” di Madonna) batte il cuore di “plastica non più plastica” di questo disco. Paradossalmente, il coraggio di questa release risiede ancor più qui che nei suoi momenti più astratti. La compiutezza vera che va riconosciuta a SOPHIE è nel saper far digerire quaranta minuti di suoni tattili, di flussi e di non-battiti come se fosse la cosa più pop di quest’anno. E in profondità lo è.

84/100

(Marco Bachini)