PARK JIHA, “Communion” (Glitterbeat, 2018)

Come spesso succede nel caso delle pubblicazioni su Glitterbeat Records, ci troviamo davanti a qualche cosa che definirei di una bellezza sorprendente e che in questo caso sin dal primo momento e dalla prima oscillazione sonora incanta letteralmente gli ascoltatori che si perdono visioni oniriche e psichedeliche nelle quali in una ambientazione digitalizzata secondo le forme dell’antico alfabeto Hangeul, si dispiegano in tutta la loro bellezza e i loro colori delicati in slow-motion i petali del “mugunghwa” oppure rosa di Sharon, il fiore simbolo della Corea e il simbolo dell’indipendenza dalla dominazione giapponese.

“Communion” è il primo disco solista di Park Jiha, musicista sudcoreana precedentemente parte di un duo con Jugmin Seo e che con questo lavoro uscito su Glitterbeat il primo marzo, si affaccia sulla scena internazionale con otto tracce inedite e in cui mostra non solo tutte le sue capacità tecniche come musista ma anche una sensibilità artistiche e un talento compositivo al di sopra della media.

Il disco costituisce una proposta che si è voluta accostare per provenienza geografica a artisti come Jambinai e Black String, anche se in questo caso ci troviamo davanti a qualche cosa di completamente diverso. Park è specializzata nel suono del “piri” sin da quando era bambina: praticamente un flauto di bambù a doppia canna e dal suono particolarmente rumoroso. Ma si disimpegna anche nel suono di altri due strumenti molto particolari: il “saenghwang” (un complesso organo a bocca) e lo “yanggeym” (un dulcimer caratteristico della tradizione coreana). Accompagnata da Kim Oki (sassofono tenore, clarinetto), John Bell (vibrafono) e Kang Tekhyun, le composizioni di Park Jiha hanno un carattere jazz minimalista combinato a quelle sonorità orientali già richiamate e che esprimono con grazia e armonia quel concetto di equilibrio su cui si fonda il pensiero dell’artista e il suo proposito di fare dello strumento una forma alternativa di comunicazione verbale.

Del resto il suono dei fiati, che poi è quello che su di un tappeto di suoni delicati e che ci arrivano attraverso quelle che possiamo definire come vere e proprie vibrazioni nell’atmosfera, è effettivamente espressivo e il suo suono ci racconta delle storie che non sono astratte ma concrete come il mondo che ci circonda e come la stessa musica che in fondo di questo costituisce una componente inscindibile.

83/100

Emiliano D’Aniello