GORILLAZ, “HUMANZ” (Parlophone, 2017)

Stracca furbizia e irresponsabile arroganza hanno conferito alla musica senza forma e senza dignità dei Gorillaz un carattere d’indipendenza e autodisciplina estetica che tutti riconosciamo come un genere a sé e poi accogliamo con ammirazione o rispetto. Sappiamo di essere abbagliati dall’hype e dal fascino della contaminazione esasperata, ma ci opponiamo il minimo, capendo che nella confusione di stili e featuring infiniti proposta da Albarn e soci c’è il senso dell’attualità, l’odore plastificato del reale.

Dire che i Gorillaz producono album vuoti e pretestuosi suona un po’ troppo severo. Perché dentro i loro lavori c’è di tutto e di più e perché ogni passaggio è oliato con ironia e demistificazione proprio per scongiurare il sospetto dell’opportunismo. Il primo e il secondo disco (“Gorillaz” e “Demon Days”) potevano contare su dei singoli molto potenti e un sound tanto pervasivo quanto intelligente. Il terzo e il quarto (“Plastic Beach” e “The Fall”) intercettarono e cavalcarono benissimo l’onda electropop anticipando di qualche settimana l’esplosione su scala mondiale della moda alternative hip hop e nu-soul. Ma con “Humanz” l’effetto lungo dell’originaria scintilla intuitiva è completamente e definitivamente sfiatato. Non c’è più divertimento, né sfizio e neppure coraggio.

Albarn si nasconde, ma non si sente la sua mancanza. Nella prima parte dell’album le cose sembrano girare più o meno bene, con l’hip hop contaminato di “Ascension” (con Vince Staples), il funky-gay-pop di “Stobelite” (con Perven Everett) e il reggaeton in autotune di “Satunz Barz” (con Popcaan). Funzionano benino anche le tracce sette e otto: “Submission” con Danny Brown e Kelela e “Changer” con Grace Jones. E ovviamente la riuscita dipende esclusivamente dall’apporto degli ospiti, dal modo in cui riescono a emergere stilisticamente al di là del processo di stagnazione e semplificazione produttiva agita dai Gorillaz. Dalla nove alla venti (senza quindi contare le varie tracce aggiunte in versione deluxe) non capita niente di interessante o rilevante. Il tentativo è quello di rifare e reinterpretare con stile un po’ leccato e un po’ maledetto le musiche che vanno più di moda nel periodo: alternative R&B, trap, downbeat, nu-soul, reggaeton, disco, electropop, synthwave, dancehall, house fiamminga, alt-rap, dream-pop, EDM, nu-balearic, breakbeat 2.0 e tutto il resto… In più c’è un fragile sottototesto distopico e dark, da narrazione da fine del mondo, anche qui in totale accordo con la metanarrazione ufficiale rispettata trasversalmente nelle arti pop che si dicono impegnate.

“Humanz” è un disco che rende ogni intuizione o ogni ricerca di originalità un’accezione strumentale e accessoria subordinata al gusto dominante, a ciò che l’ascoltatore si aspetta o vorrebbe. Non si impone alcuno sforzo emotivo o partecipativo. Verrà ricordato come l’album dove Noel Gallagher e Damon Albarn hanno distrattamente collaborato. Questo è il massimo a cui può ambire.

40/100

(Giuseppe Franza)