WEYES BLOOD, “Front Row Seat to Earth” (Mexican Summer, 2016)

weyes-cover790In una recente intervista, al giornalista che le chiedeva dov’è che si sentisse più a casa, Natalie Mering aka Weyes Blood ha risposto “I’m from nowhere” – per raccontare suo ultimo disco partiamo proprio da qui.

Natalie sembra infatti arrivare da un’altra epoca, da un altro mondo. Basta dare un’occhiata alla cover di “Front Row Seat To Earth”, ambientata in un paesaggio dalle sembianze extraterrestri, lunari: sebbene esistano prove confermate della sua esperienza terrestre – nata in California ventisette anni fa, poi libera viaggiatrice tra Kentucky, New Work, Pennsylvania, New Mexico e chissà quali altri posti – possiamo dirci sicuri che sia realmente così? Autrice di un folk che si muove tra songwriting classico e psichedelia, Weyes Blood sembra avere molto più a che fare con gli anni Sessanta e Settanta piuttosto che con il Duemilasedici: un mondo immaginifico, ormai lontano, che non esiste più. “Nowhere”.

“Front Row Seat To Earth”, con i suoi nove brani, altro non è infatti che un viaggio nel tempo: dall’opening track “Diary” all’ultima traccia Weyes Blood ci trasporta sulla West Coast americana, in un periodo temporalmente indefinito tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70. Tutto intorno foreste, deserti, laghi, fiumi e vallate incontaminate, in cui le comunità di outsider trovavano ospitalità per ristabilire un contatto puro e genuino con il mondo naturale. E nell’aria canti e canzoni, poesie e cori, rituali spirituali. Ci pensano “Diary” e “Used To Be”, i primi due pezzi, ad adagiarci in questo luogo immaginario: entrambi sono costruiti su una spirale lenta e di synth dal sapore antico a cui si aggiungono i preziosismi vocali che già avevamo imparato a conoscere nei lavori precedenti. Quella di Natalie è una voce maestosa, eppure allo stesso tempo sempre composta, elegante, forte, capace di passare dal falsetto alle tonalità più profonde: nel viaggio che stiamo intraprendendo, per non smarrirci tra le varie sonorità e influenze, è lei a guidarci sicura. Succede nei due brani citati, e in tutto il resto del disco, ma l’esempio più calzante è senza dubbio “Do You Need My Love”: quando le melodie rarefatte sembrano perdere quasi del tutto consistenza, risucchiate in un vortice oscuro di psichedelia, ecco che riemerge vigoroso il cantato, in un crescendo finale che sa di catarsi. È in momenti come questi che si avverte fortissimo e inconfondibile il legame con il folk-songwriting della tradizione americana, in una linea che va da Joan Baez, a Carole King, a Joni Mitchell (non a caso, l’artista preferita da sua madre).

In questa atmosfera di devozione nostalgica c’è spazio anche per qualche lieve sprazzo di modernità, di contemporaneità: “Generation Why”, posta al centro del disco, racconta, in una specie di canto sacrale etereo, le visioni dolceamare sul futuro della sua generazione. Le immagini che accompagnano il relativo video raccontano la necessità di una ribellione fisica, violenta, verso la tecnologia, divenuta ormai una vera e propria appendice fisica del corpo umano. È forse proprio questo il momento fondamentale dell’album, in cui realizziamo che il passato – pre-tecnologico, analogico – per Weyes Blood è prima di tutto una fonte d’insegnamento per un futuro nuovo, diverso da come tutti lo immaginiamo. Lo canta lei stessa: “Now what a great future this is gonna be”.

75/100

(Enrico Stradi)