JAMIE T, “Trick” (Virgin Records, 2016)

jt_trick_packshot_sm_1000 Si preannuncia come un ottobre 2016 di glorie e trionfi per Jamie T, con l’annuncio di concerti sold out in tutta la Gran Bretagna, a cui farà seguito un tour europeo senza Italia. Il chitarrista/cantante londinese si gode anche il plauso della critica specializzata e il sostegno incondizionato dei più importanti dj radiofonici, da Annie Mac a Zane Lowe, per “Trick”, quarto album in dieci anni di attività entrato alla numero 3 della UK Chart. Dipinto il quadro generale, la domanda che quindi mi pongo nella veste di critico kalporziano è: il disco merita tutti questi favori, e soprattutto, riuscirà ad emergere fuori dei confini albionici?

Se il Buongiorno si vede dalla Cover (passatemi il finto neologismo), siamo di fronte a un capolavoro: in uno sfondo classico e tra l’indifferenza generale si fa strada un Cristo illuminato ma accigliato, poi vediamo intorno a lui una persona minacciosa vestita in nero e infine un piccolo teschio – che presumo essere il nuovo logo di Jamie T – sotto al nome dell’album. Vi lascio alla libera interpretazione delle immagini passando alla musica; se ci avete visto una sorta di “Tescoland” non vi sbagliate, perchè è uno dei brani qui contenuti e più riconoscibili dell’artista, una sorta di omaggio ai Clash di “Police On My Back”. Altrove (in “Solomon Eagle”) è l’ombra dei Kasabian a manifestarsi, nei riff potenti fusi all’elettronica; mentre nel singolone “Drone Strike” si evidenzia più di un richiamo alle metriche di Mike Skinner aka The Streets. Se poi aggiungiamo che “Dragon Bones” sembra un pezzo tanto di Mark Ronson quanto di M.I.A, e che “Power Over Men” suona alla grande per gli amanti degli ultimi Arctic Monkeys, ci viene presentato un contesto d’insieme molto variegato, ma di matrice decisamente nazionalpopolare.

Il talento è però innegabile, quando si tralasciano riempitivi come “Robin Hood”. Lo dimostrano due ottimi brani agli antipodi tra loro: l’iniziale “Tinfoil Boy” dove hard-rock, uk garage e rap convivono in un refrain apocalittico e ideale per le piste da ballo, e la riflessiva ballad “Sign Of The Times” – dove Prince c’entra anche al di là del titolo della canzone, nel carattere malinconico in testo e musica di una nuova? “Purple Rain”. “Post no bills, ill with chills, the pills, the cigarettes/No I won’t kill, I will not defend a bloody rag/ And where did all the friendships go?/ Lost them all to suffragettes/ And where did all the venues go?/ Lost them all to businessmen/ We all know, we’re a sign of the times” canta su un semplice arpeggio di chitarra à la Billy Bragg, descrivendo una realtà oggi alienante. “But I wish I’d been a little more exceptional/And I wish I’d been a little unconventional/But I was not enough” è l’inevitabile dilemma che sorge in un Jamie sempre in bilico tra indie e mainstream, in un Inghilterra dove è sempre più difficile fare e proporre musica con le proprie forze. E reinventarsi di continuo una volta superati i trentanni.

Il disco in conclusione si presenta interessante e ben realizzato, più catchy e diretto del precedente “Carry On The Grudge” ma privo dell’effetto dinamite di un esordio a parer mio (ma non del Giordani!) insuperabile e che ne conteneva i momenti migliori a partire da “If You Got The Money”. In bocca al lupo coi prossimi impegni, Jamie.

70/100

(Matteo Maioli)