PARQUET COURTS, “Human Performance” (Rough Trade, 2016)

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I Parquet Courts sono la “american indie band” degli anni dieci, di certo non sfigurerebbero in un ipotetico capitolo dedicato agli anni duemila nel libro di Michael Azerrad, “Our Band Could Be Your Life: Scenes from the American Indie Underground, 1981–1991”. Le radici del gruppo newyorkese (d’adozione) sono, infatti, ben solide in una forma mentis DIY, in bilico, musicalmente parlando, tra il suonare dissonante del post-punk fanzinaro britannico e la stravaganza rilassata, svogliata delle chitarre slacker rock anni novanta: per esempio la prima cassetta, “American Specialties” (2011), è un’autoproduzione ed anche lo stesso “Light Up Gold”(2012) è stato stampato inizialmente in sole cinquecento copie dalla Dull Tools, piccola etichetta di proprietà di Andrew Savage, voce e chitarra del gruppo, nonché autore dell’artwork dei dischi, i cui tratti stilistici sono influenzati da quelli di Raymond Pettibon (illustratore delle copertine dei Black Flag). Ogni scelta creativa è quindi fatta in piena libertà: capita così che il gruppo decida di far uscire un disco, “Content Nausea”, a nome Parkay Quarts (anche se la formazione è sempre quella della band madre). Decisione, quest’ultima, che ha due obiettivi ben definiti: la ricerca di propri spazi e tempi; la volontà di mettere al centro la musica e di sviluppare un processo artistico personale. Anche il più recente EP, “Monastic Living”, in tal senso è un esempio concreto di questa mentalità artistica : primo disco per la Rough Trade, storica etichetta londinese, e i Parquet Courts pubblicano un lavoro completamente fuori dalle logiche commerciali, brani prevalentemente strumentali, dettati dall’improvvisazione e raffiguranti scenari noise, “c’è stato un momento in cui abbiamo deciso che le nostre azioni avrebbe parlato più forte delle parole, così procedendo, abbiamo fatto un disco strumentale senza fare interviste”, racconta Andrew Savage a DIY nel marzo 2016. “Human Performance”, seconda uscita su Rough Trade, si muove, invece, in direzione diametralmente opposta: è un album in cui musica e testi hanno lo stesso peso, al punto tale che la scrittura delle liriche del quartetto è meno oscura, più diretta e collaborativa (ogni componente ha contribuito alla realizzazione di un pezzo, anche il bassista Sean Yeaton ed il batterista Max Savage). E la title track gioca un ruolo chiave nella definizione delle coordinate artistiche del disco, essendo la somma di tutti gli elementi che vanno poi a formare la struttura sonora e testuale delle tredici tracce dell’album registrate tra Chicago (nel Loft dei Wilco), New York (ai Dreamland studios) ed Easthampton (al Sonelab di Justin Pizzoferrato): “Human perfomance” (il brano) unisce melodia (nelle strofe) e vibrazioni di rabbia chitarristica nel ritornello (ripetuto tre volte), parallelamente il testo si divide poi tra la travolgente e dolorosa sincerità dei primi versi riguardanti la fine di una storia d’amore (“I know I loved you did I even deserve it”) e lo smarrimento personale descritto per immagini a metà della narrazione (“Witness and know, fracture and hurt/ eyes in the fire, blink unrehearsed”). Il disco, rispetto agli episodi precedenti della band, ha quindi un’anima più personale – cosa che avevano in parte anche i suoi predecessori – ed ha però anche uno spirito più vulnerabile, incentrato sul concetto di “prigionia interiore” (termine usato da Andrew Savage in un’intervista alla NPR): il songwriting sembra essere il risultato di una profonda interrogazione sulla propria umanità e su quanto quest’ultima sia autentica o sia solo una performance (“human” come recita il titolo del disco). La parte strettamente strumentale dei brani tende, pertanto, ad essere meno chiusa, più emozionale ed aperta a nuove soluzioni e sonorità: pur rimanendo ben definiti i tratti caratteristici del quartetto – ossia quell’approccio chitarristico inquieto (“Paraphrased”, “Two Dead Cops”) – i (quattro) musicisti danno un spessore maggiore alle proprie composizioni allargando lo specchio delle influenze. A lato del solito crossover tra nervosismo post-punk e alternative/lo-fi rock anni novanta nelle canzoni si fa spazio una voglia/ricerca di melodia: il quartetto suona “pop” e pulito come non mai (“Keep it even”, “Steady on my mind”) ed approda su strade inaspettate, il western/morriconiano di “Berlin got blurry” e il flow quasi rap di “Captive of the sun”.
“Human Performance” è senz’altro la prova della maturità per i Parquet Courts: un disco che è una specie di bignami su come essere (inevitabilmente) derivativi ma con personalità.

80/100

(Monica Mazzoli)